Come spesso capita quando si parla di montagna o di aree rurali, il tema della pastorizia riesce a ritagliarsi uno spazio nei mezzi di comunicazione generalisti solo in occasione di eventi di particolare rilievo, come nel caso della protesta dei pastori sardi per il prezzo del latte nel 2019, oppure quando c’è la possibilità di stimolare la curiosità dei lettori (leggasi: aumentare i click) attraverso storie di vita favoleggianti (di solito: giovane ragazza laureata decide di fare la pastora) o dal sapore epico (del tipo: la dura vita del pastore, obbligato a vedersela con i grandi carnivori).
Da alcune settimane a questa parte fanno però capolino, perfino su alcune testate nazionali, titoli che finalmente parlano di pastorizia come di un settore economico fondamentale per gli equilibri sociali e ambientali della montagna italiana, annunciando il prossimo avvio delle attività della Scuola nazionale di pastorizia (Snap).
Per il settore pastorale italiano, la mancanza di opportunità di formazione specializzata rappresenta un punto debole strutturale, ormai da anni al centro delle riflessioni e delle proposte degli esperti. Da un lato, il settore è alle prese con problemi storici, come la scarsa capacità di attirare nuovi lavoratori; il mancato riconoscimento culturale, sociale e normativo dell’attività pastorale, lontano dalla “riserva” degli alpeggi d’alta quota o di realtà specifiche come quella della pastorizia sarda e della transumanza appenninica centro-meridionale; la rottura della trasmissione intergenerazionale dei saperi; la crescente debolezza sociale, infrastrutturale ed economica dei territori montani; la difficoltà della convivenza con i grandi predatori; le distorsioni legate a un’attribuzione discutibile dei sussidi comunitari per l’utilizzo dei pascoli. Dall’altro lato, i pastori e le pastore di oggi si trovano di fronte ad alcune straordinarie opportunità, come la potenziale riattivazione dei beni comuni rurali; la nuova attenzione dei consumatori nei confronti dei prodotti agroalimentari provenienti da filiere radicate nel territorio; il progressivo riconoscimento del valore ecosistemico e paesaggistico di una gestione sostenibile e multifunzionale delle risorse pascolive; le opportunità future di tecnologie appropriate al servizio dell’attività pastorale.
Per affrontare queste sfide e queste opportunità e per fare della pastorizia e dell’allevamento intensivo attività che appartengono a pieno titolo alla società di oggi e di domani è fondamentale la possibilità, per i pastori, di costruire la propria professionalità, attraverso percorsi formativi dedicati, come già avviene da decenni in Francia o in Spagna.
«Qualche anno fa ho sentito dire, durante un convegno, che il futuro della pastorizia potessero essere i woofer (volontari che trascorrono alcune settimane o mesi in un’azienda agricola, offrendo lavoro in cambio di ospitalità, ndr)» racconta Marta Fossati, che alleva capre a Sambuco (Valle Stura) e che fa sempre più fatica a trovare dipendenti disposti ad aiutare lei e il marito Luca con il gregge e in caseificio. «Ma io non voglio lavorare con volontari, che magari sono costretta a cambiare dopo due settimane. Purtroppo il lavoro del pastore è spesso immaginato con una visione bucolica. Invece è un lavoro ed è difficile, bisogna essere pronti ad affrontare mille evenienze diverse, che cambiano in ogni stagione. Per farlo ci vuole professionalità e sicuramente una scuola di pastorizia potrebbe contribuire a portare quel cambio di mentalità che in Francia, per esempio, c’è stato già a partire dagli anni ’80».
Il progetto della Scuola Nazionale di Pastorizia, che dovrebbe partire con la prima sperimentazione già nel 2022, sembra poter rispondere pienamente alle esigenze e alle sfide del settore italiano di oggi, attraverso un percorso formativo rivolto a diversi soggetti: da chi è già attivo nel mondo dell’allevamento agli aspiranti neorurali, desiderosi di affiancare alla visione bucolica della vita con gli animali un bagaglio di conoscenze e competenze professionali che diano solidità al loro progetto di insediamento in un contesto montano o rurale.
A guidare l’iniziativa c’è un partenariato che riunisce alcuni dei soggetti più importanti su scala nazionale, non solo in ambito zootecnico, ma riguardo allo sviluppo sostenibile del territorio più in generale: Crea, Università di Torino, Eurac, Rete Appia, Cnr, Agenform, Associazione Riabitare l’Italia, Nemo-Nuova Economia in Montagna.
Così come la pastorizia, la Snap ambisce a essere una scuola modulare, itinerante e interattiva, per evidenziare la costante evoluzione del lavoro del pastore, tra ciclicità stagionale e trasformazioni continue, e l’importanza di mettere in dialogo territori e attori diversi.
Il programma formativo si articola in una lunga lista di obiettivi e di materie, che mostrano con chiarezza la complessità di questa professione, troppo a lungo affidata alla trasmissione informale delle competenze: dalla cura e gestione del gregge, alla conduzione di un’impresa agricola, dalla gestione dei rischi ambientali, fino all’integrazione pastorizia/turismo o al fondamentale e complesso “sistema di relazioni del pastore”.
Del resto, attraverso la pastorizia “non si producono solo prodotti di origine alimentare, ma si produce territorio” come ricorda Luca Battaglini (Università di Torino), intervistato da Luca Serenthà (Fatti di Montagna) per il podcast Dislivelli Fatti, presentato in questo numero della rivista (https://www.dislivelli.eu/blog/ma-cos%e2%80%99e-la-snap.html).
Come insegnano i geografi, il territorio è fatto di relazioni: tra persone, animali, piante, paesaggi, tutti elementi che compongono il sistema complesso in cui i pastori lavorano ogni giorno. Se consapevoli delle proprie potenzialità e se messi nella condizione di esprimere la propria professionalità, pastori e pastore possono continuare a essere, e diventare sempre di più, fondamentali produttori di territorio e di sostenibilità per le aree rurali e per le montagne di domani.
Giacomo Pettenati