Un tizio vestito di verde gesticola a occhi chiusi, concentrato come neanche Riccardo Muti alle prese con la New York Philarmonic. Ma Erik Rolando dirige unicamente la sua orchestra interiore, che intona “l’ascesa di un’Ape 50 al colle di Caprauna”. Andante allegro adagio, evidentemente. Alla fine dell’esibizione, il famigliare “trerrote” appare all’orizzonte, in un trionfo di ferraglia e miscela. Siamo in alta Valle Tanaro, a monte di Upega: di qui sorge il fiume che dopo 276 km incontra il Po, da queste montagne di pascoli e calcare inizia l’avventura di un’ape a motore, di un silenzioso conducente (Fabrizio Fontana), di un loquace poeta dialettale (Nicola Duberti) e di un coniglio in pelo e vibrisse (Lapo). Immersa in un’atmosfera surreale, l’Ape trasformata in caffè letterario ambulante affronta un lungo viaggio etnolinguistico a tappe lungo il Tanaro. Ogni paese una sosta, ogni sosta una lunga chiacchierata nella lingua locale, canti, poesie, improvvisazioni intorno al cassone. Sul cassone un tavolino, due sedie, pane, salame, tuma e dolcetto (catering a cura della nonna di Sandro Bozzolo), nei paraggi il coniglio (ma anche cuniu, lapin e perru), comprimario muto dell’improbabile carovana. Un’estate intera di riprese, ore e ore di materiale filmato condensate in un’ora e mezza di scampoli di conversazione, ritagli di racconti, versi sparsi. La selezione è accurata: filtrati dall’acqua del Tanaro, a poco a poco si depositano nel setaccio i contenuti più preziosi. Sono accenti in via d’estinzione, aneddoti da un tempo lontano e intuizioni di futuro. È l’anziano viozenese che parla il brigasco, ma non capisce l’occitano; sono i gat rus di Farigliano e i lapacuse di Piozzo che si provocano a vicenda; è l’antropologo che descrive la miopia dei parvenus della vite; sono i Trelilu che cantano di sentieri polverosi diventati lucide strade fatte per correre senza guardare. Ma l’Ape non corre, ronza placida assecondando la gravità lungo le sponde del Tanaro. Si ferma a campionare insulti presso la torre di Ceva, presta le lunghe orecchie di Lapo a dotte dissertazioni a Clavesana e agli assoli di un medico canoro ad Alba. Trova anche il tempo per fare tappa nelle scuole, dove si discute con gli studenti di competenza e diversità linguistica. Si inoltra in un accampamento nomade, per scoprire che i giovani sinti sono una generazione di lingua madre piemontese (altro che “parler cum i singher”…). Ma di tutte le suggestioni, di tutte le intuizioni che il film regala, solo una ha il profumo della rivelazione e il gusto della verità. La portata della scoperta è tale da poter impressionare le menti più sensibili: per questo e solo per questo la visione del documentario è consigliabile unicamente a bambini accompagnati da adulti, adulti preparati, che sappiano rendere più accettabile ai piccoli l’amara notizia. Che anche i sussidiari dicono le bugie. Che qualcuno cerca di riscrivere la storia, quando bisognerebbe correggere la geografia. Il Po non è il fiume più lungo d’Italia. Il titolo spetta di diritto al Tanaro, che hanno sempre misurato in maniera fraudolenta a partire dalla confluenza fra il rio Negrone e il Tanarello. Ma le sorgenti del fiume sono più a monte, e soprattutto sono ben più distanti di Pian del Re, dove nasce il Po, da Bassignana, il punto dove l’ex fiume più lungo d’Italia ora si getta nel Tanaro. Una verità scomoda, colpevolmente taciuta da quanti non volevano che il popolo italiano sapesse che in realtà “il Negrone è il padre della nazione” e che hanno impropriamente chiamato Padania ciò che merita piuttosto il nome di Tanària. Nel corso del film la scienza, rappresentata dall’astronomo Vincenzo Zappalà, sposa la causa e si prodiga per fare chiarezza su un imbroglio chilometrico durato troppo a lungo.
Il film scorre a tratti senza briglie come un ruscello capriccioso, a tratti largheggiando come un placido fiume di pianura, sempre imprevedibile nel suo alternare dolci anse e brusche svolte: è un documentario la cui trama si è dipanata durante le riprese, in presa diretta e mai ripetibili. Lasciatevi trasportare dal mormorio del Tanaro e dalle voci che ne animano le sponde, cullati dalle musiche originali di Marco Lo Baido, polistrumentista e orecchio fine delle (auto)produzioni firmate Bozzolo e Ingaria. Accomodatevi in poltrona scettici, vi alzerete Tanàri: il Tanaro ce l’ha più lungo (il corso), “non si scappa di qui”!
Irene Borgna
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