Occuparsi di agricoltura in montagna significa osservare un quadro tanto preoccupante quanto noto.
L’immagine è quella di territori che si spopolano disperdendo conoscenze e tecniche produttive che hanno permesso a generazioni di vivere, allevare e coltivare in  ambienti a volte estremi.
I pascoli, i terreni e i boschi non più curati non sono una semplice nota stonata nella propaganda della montagna da cartolina, ma costituiscono un’emergenza ambientale per i territori a valle e le pianure. Nella didascalia troviamo anche i dati di una realtà agricola, generale e non solo montana, in cui solo il 4% della popolazione svolge un’attività agricola e all’interno di questa minoranza il 33% ha meno di 35 anni, mentre il 44% ne ha oltre 65.
Il quadro ha già fatto il giro di tutte le mostre, in tanti guardandolo si sono allarmati e hanno provato a proporre delle soluzioni per porre rimedio, e di carte da giocare nell’immediato ce ne sarebbero:  mettere al riparo i terreni agricoli dalle speculazioni edilizie e dal proliferare dei “luna park sciistici”; semplificare le normative igienico-sanitarie; adeguare, senza stravolgerle, le strutture in quota; restituire ai pastori-malgari il prestigio sociale che meritano e una adeguata gratificazione economica; promuovere campagne di sensibilizzazione nelle scuole e presso i grandi acquirenti.
Tutto ciò, tranne alcune rare eccezioni, non sta accadendo.
Il consumatore, che scegliendo cosa acquistare ha lo strumento per intervenire direttamente sulle sorti di un territorio, spesso non ha elementi per distinguere, perché manca una disciplina dei marchi coerente, perché le etichette sono laconiche o volutamente fuorvianti, perché manca l’educazione nel riconoscere la qualità di un prodotto e soppesare coscientemente le variabili che compongono un prezzo.

Le istituzioni, che avrebbero gli strumenti per agire sul medio e lungo periodo, preferiscono strade più immediate e redditizie in termini politici e di immagine: aiuti economici indiscriminati, progetti insensati di modernizzazione di aree che non consentono tali operazioni, ancora oggi appoggiano l’idea che i territori alpini possano superare le loro difficoltà uniformando le proprie tecniche a quelle della pianura, quindi dell’industria. Scorciatoie rischiose che nella maggior parte dei casi portano nel posto sbagliato. Chi le sostiene a spada tratta spesso non fa altro che difendere gli interessi di chi vuole approfittare dell’immagine di un prodotto di montagna per semplificarne la produzione fino a banalizzarla, standardizzarla alla ricerca di maggiori quantità prodotte e maggior profitto. Il settore caseario, che per l’economia montana ha un’importanza cruciale, è il più colpito da decenni di politiche che favoriscono gli interessi del sistema delle latterie industriali e delle grosse aziende zootecniche che, oltre a non fruttare i benefici economici millantati, si lasciano alle spalle perdita di biodiversità animale e vegetale.
Non è questa la strada da seguire se si vuole preservare l’agricoltura delle terre alte, noi di Slow Food crediamo che la soluzione stia nel rispetto del delicato equilibrio tra un territorio e le sue tradizioni, sapendosi adattare a ciò che offre il progresso, senza stravolgerne l’essenza. Questo non vuol dire essere degli integralisti difensori del bel tempo andato, significa capire che numeri e fatturato non sono gli unici aspetti che contano nelle produzioni agricole e ciò va attentamente tenuto in considerazione quando parliamo di produzioni di montagna.
Mauro Pizzato