Il lascito di eredità intorno alla montagna, trasmessoci nella seconda metà del Novecento, è quello di una montagna spopolata, rifiutata, rimossa oppure retoricamente idealizzata. L’appuntamento con il boom economico del secondo dopoguerra ha coinciso con l’enfatizzazione della città, meglio se metropolitana, e con una rappresentazione bipolare delle terre alte alla stregua di una relazione schizoide. Da una parte c’è la montagna madre e matrigna del mondo dei vinti, vissuta dai montanari in qualità di iperluogo della sofferenza e di nonluogo delle opportunità vitali. L’ambivalenza fra nostalgia e negazione, infatti, ha attraversato gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso. Dall’altra parte la montagna dei cittadini ha generato un’altra forma di ambivalenza, altrettanto perniciosa. Le voglie di consumo e di divertissement hanno contribuito a trasformare alcuni territori in aree loisir, in “terreno di gioco”. Per certi aspetti questa visione sembra riecheggiare, seppur con accenti diversi, la rappresentazione delle Alpi diffusa dall’alpinista inglese Lesley Stephen in termini di “playground of Europe”. Ne è derivato un eccesso di “sportivizzazione” dello spazio montano, responsabile della costruzione delle stazioni sciistiche di terza generazione e degli insediamenti rivolti alla pratica dello ski total, svincolati volutamente da ogni legame con le comunità residenti. In questa espressione di assolutismo monoculturale, il concetto di “territorio” viene espropriato del suo vero significato socio-antropologico e viene assimilato riduttivamente a “terreno” di glisse. Il rovescio della medaglia di questa concezione è costituito dall’emergere prorompente di un certo ambientalismo fondamentalista, di matrice urbano-centrica, polarizzato sulla contrapposizione uomo-ambiente. Gli anni Sessanta e Settanta hanno posto problemi fondamentali di natura ecologica rendendo imprescindibile la necessità di affrontare il tema dei limiti dello sviluppo.
Il dissesto urbanistico collegato a una montagna colonizzata da stilemi architettonici kitsch e da stili di vita conseguenti hanno violato, nella loro irrefrenabile orgia consumistica, quella nozione di limite di cui la montagna costituisce un perenne richiamo, fisico e morale, nonostante le seduzioni della società del no limits. Non poteva, quindi, non formarsi una coscienza critica al riguardo. Tuttavia, l’atteggiamento che verrà assunto di fronte alle nuove emergenze ambientali sembra individuare, nella presenza sempre più residuale delle popolazioni alpine, un ostacolo alla libera manifestazione della “Natura”. La filosofia gestionale dei Parchi, soprattutto di quelli nazionali, era orientata da visioni prettamente conservazionistiche dove il montanaro veniva percepito quasi alla stregua di un intruso. Ricordo, in proposito, le vecchie polemiche all’interno dei Parchi fra abitanti, amministratori e protezionisti. In questa ottica si veniva a configurare una sorta di falsa coscienza. A una “cultura del sì” indiscriminato nei confronti di ogni forma di infrastrutturazione deturpante si contrapponeva una “cultura del no”, altrettanto irriducibile, sul fronte proibizionista. L’idea di paesaggio quale spazio di relazione / interazione fra montanari e ambienti naturali era del tutto disattesa. Quei pochi residenti sopravvissuti dovevano fare i conti con burocrazie soffocanti e scoraggianti nei confronti delle tradizionali attività agro-silvo-pastorali. L’evolversi, nel frattempo, della filosofia della tutela ambientale da posizioni di tutela passiva a forme di tutela attiva, anche alla luce di una concezione dell’ambiente declinata in chiave di complessità, lasciava spazi sempre più ampi alla ricezione matura dell’idea di paesaggio. Non più dimensione contemplativa ed estetizzante di matrice idealistica, fondamento dei primi atti legislativi nell’Italia degli anni Trenta (Legge Bottai, 1939) e porto rassicurante per “anime belle” di hegeliana memoria. Piuttosto, si fa strada la nuova consapevolezza del ruolo ineludibile degli uomini della montagna intesi come “costruttori di paesaggio”, “faiseurs de montagne” nel senso di Bernard Debarbieux. La compresenza delle filosofie contrapposte del “tutto permesso” e del “tutto vietato” ha trasformato il Bel Paese in uno spazio di contraddizioni. La ricerca ossessiva della velocità a tutti i costi ha trasformato la montagna in uno stadio, sciistico e alpinistico, facendo implodere la relazione spazio-tempo e perdere di vista il valore di un mondo profondamente segnato dalla natura e dalla cultura. Questi due fattori, anziché essere posti in una relazione di intreccio e di reciproca contaminazione, sono stati rappresentati in termini oppositivi.
Oggi registriamo sbigottiti la nascita di “nuovi montanari”. Chi ricorda gli anni del dopoguerra, caratterizzati dall’anatema nei confronti della montagna, prova grande sorpresa nel cogliere segni di interesse per la vita sulle terre alte. Che si tratti del fenomeno dei “ritornanti” o di chi cerca collocazioni di vivibilità in un mondo sempre più invivibile per ragioni riconducibili all’affermarsi di nuovi bisogni (“voglia di comunità” alla Zygmunt Bauman?), sta di fatto che siamo in presenza di fatti del tutto imprevisti. Quando la montagna sembrava dover oscillare fra sfruttamento industriale, luddismo consumistico e mitizzazione del selvatico, non si pensava vi fosse ancora spazio per azioni insediative. Oggi gli scenari stanno cambiando. Tuttavia ci si deve chiedere se vi sia ancora posto per l’uomo montanaro, al di fuori degli stereotipi folcloristici, proprio nel momento in cui egli si fa anche pastore transumante o stanziale e deve fare i conti con l’aumento dei grandi predatori. L’idea della montagna quale spazio di sola natura “incontaminata” e de-antropizzata contrasta, infatti, con la storia del paesaggio alpino e con le nuove domande di montanità. Si impone, quindi, una nuova governance capace di far tesoro degli errori del passato e di accompagnare le domande del presente allo scopo di dare un avvenire umanizzato ed ecosostenibile alle nostre montagne.
Annibale Salsa