Dopo l’ampia inchiesta sulle Comunità montane (Dislivelli,eu, febbraio 2011), in questo numero affrontiamo un altro tema cruciale per il futuro della montagna: lo stato di salute dei parchi regionali e nazionali. A una prima analisi sembra la fotocopia del precedente: taglio di fondi, sostanziale disinteresse della politica, crisi economica, isolamento, smarrimento, accorpamenti progettati e non realizzati. Affiancando le valutazioni dei presidenti delle Comunità montane a quelle dei responsabili dei parchi si potrebbe fatalisticamente concludere che «questa è l’Italia, non ci sono rimedi, ognuno si arrangia e tira avanti come può».
Ma se l’Italia è messa così è proprio perché si fa di ogni erba un fascio, dimenticando le ragioni profonde che – per esempio in Piemonte – motivarono la lungimirante politica dei parchi naturali e ne decretarono l’ideazione, lo sviluppo e l’affermazione, nonostante si trattasse di una delle azioni più impopolari che un’amministrazione pubblica possa proporre agli abitanti di un territorio: eliminare o ridurre le attività speculative private per salvare un bene collettivo. Naturalmente oggi quasi tutti sono d’accordo sulla convenienza economica dei parchi (anche se poi mancano i soldi per progettarne il futuro), ma quando si realizzarono i primi parchi regionali l’idea era tutt’altro che condivisa, e meno che mai quando si costituirono i parchi nazionali per salvare animali in via di estinzione come lo stambecco e montagne a rischio di svendita come il Gran Paradiso.
Accantonando la vecchia immagine del “parco poliziotto”, la migliore definizione circa la vocazione dei parchi resta quella di “laboratorio”. Di che cosa? Di progetti e buone pratiche che, una volta sperimentati in luogo protetto, possano essere vantaggiosamente esportati all’esterno. Il processo richiede fasi di progettazione che vanno evidentemente finanziate (ricerca scientifica, analisi del territorio, programmazione e condivisione degli interventi) e fasi di attuazione che possono portare ricadute benefiche, anche economiche, sul territorio stesso, ma non necessariamente sulle amministrazioni dei parchi. Quando si svolge un ruolo di regia, che è l’unico ruolo possibile per un parco, si lavora per creare opportunità virtuose per la collettività.
Questa funzione vale anche per il turismo, fenomeno rischioso e contraddittorio sul versante della conservazione di un bene (naturale o artistico che sia), ma fondamentale sul piano della conoscenza, dell’educazione e anche del profitto. C’è oggi un pensiero diffuso che vede nella funzione di un parco soprattutto un valore aggiunto sul piano turistico-promozionale-commerciale, ma una riflessione seria dovrebbe fondarsi sui dati e sulle esperienze. Il primo dato è che nessun parco è in grado di generare introiti con il turismo se, a monte, non incontra una tradizione di accoglienza sul territorio, accompagnata da competenza e professionalità. Da solo il parco può fare pochissimo, anche perché la sua missione non è attirare più gente possibile nell’area protetta, quanto semmai informarla, accompagnarla, aiutarla a crescere. Se in Italia si registrano circa quindici milioni di presenze nei soli parchi nazionali, si potrebbe concludere che quindici milioni di persone sono informate, educate, consapevoli. Evidentemente non è così, perché gli occhi morbosi che salivano a Cogne per curiosare sulla casa del delitto non appartenevano alla categoria, e nemmeno i bagnanti del Circeo, o gli automobilisti del Passo dello Stelvio. Intorno alla geografia e al ruolo dei parchi esiste una larga zona grigia interessata dai grandi transiti, dagli sport di massa, dalle seconde case, dal turismo “inconsapevole”, tutti ambiti che difficilmente coincidono con l’educazione ambientale e la vocazione delle aree protette.
Anche quei turisti che si dirigono espressamente a visitare un parco attratti da animali, foreste, acque pulite, splendenti nevai, spesso sfuggono a una consapevolezza profonda del valore parco, perché il mare, le montagne e le foreste ci sono dappertutto e può essere difficile capire la differenza. Dunque l’idea di parco che andrebbe promossa e divulgata non è tanto l’immagine di un luogo protetto, o del suo carattere incontaminato, quanto il faticoso processo di elaborazione di un progetto ecologico, la delicata sintesi di protezione e partecipazione, l’equilibrio finale tra rocce, alberi, animali e persone (turisti compresi), nel segno di una convivenza possibile. Questi elementi andrebbero innanzi tutto trasmessi al visitatore, perché li capisca, ne faccia tesoro e possibilmente li esporti a casa propria, mettendo a profitto l’insegnamento del parco.
Ecco un altro compito che attiene profondamente alla vocazione dei parchi e non produce reddito, se non in forma indiretta e su tempi lunghi. La domanda è: conviene trascurare queste funzioni per dedicarsi a operazioni economiche di immediato ritorno o è meglio progettare un futuro sostenibile in cui non ci sia più nemmeno bisogno dei parchi? Naturalmente è un’utopia, ma molto seria e molto concreta.
Enrico Camanni