Vorrei provare a fare alcune considerazioni su quanto è avvenuto nelle Alpi, con un occhio di riguardo al lato ambientale, che per noi di Cipra, pur senza trascurare aspetti sociali ed economici, resta la priorità nel decennio appena trascorso. Così, a sensazione, con il rischio di essere sbugiardato da dati scientifici, se dovessi fare una valutazione generale direi che le cose sono peggiorate, ma l’intensità del peggioramento è diminuita e questo deve tutto sommato essere interpretato in maniera ottimistica, non tutto è negativo e qualche spiraglio si intravvede. Sappiamo che le inversioni di tendenza possono avvenire solo su tempi molto lunghi o a seguito di una crisi, una rottura drastica del sistema, cosa che per fortuna non è ancora avvenuta (anche se dal punto di vista del clima, non solo nelle Alpi, ci sono state più di un’avvisaglia).
Facendo scorrere alcuni numeri del notiziario alpMedia del 2009 osservo che dieci anni fa ci si stava occupando, tra le diverse cose, di cambiamento climatico. Purtroppo gli allarmi lanciati dagli scienziati si sono dimostrati tutt’altro che infondati e se da un lato le emissioni climalteranti sono aumentate, per lo meno oggi c’è la consapevolezza del problema ed alcune azioni sia di mitigazione (soprattutto nel settore dell’efficienza energetica, poco o nulla in quello dei trasporti) che di adattamento, sono state sviluppate. Ed in questo contesto le Alpi hanno fatto da apripista con le costruzioni passive, con l’uso del legno e con le energie rinnovabili, anche se in questo caso occorre fare dei distinguo perché spesso, di fianco ad esempi virtuosi, dietro il paravento delle energie rinnovabili si nascondono speculazioni – vedi idroelettrico ed eolico – a scapito di ambiente e paesaggio.

Nel 2009 la Cipra Internazionale, che fino ad allora aveva quasi sempre trattato tematiche ambientali, affrontò in una sua conferenza annuale il tema della “crescita ad ogni costo”. Qualche anno dopo sarà Cipra Italia a rilanciare i contenuti della Dichiarazione “Popolazione e Cultura” della Convenzione delle Alpi. La neonata associazione Dislivelli si faceva conoscere con la pubblicazione sui nuovi abitanti delle montagne piemontesi, e sui migranti, un fenomeno che sarebbe poi esploso mostrando tutte le debolezze del sistema di accoglienza, ma anche le opportunità che in vallate sempre più spopolate avrebbe apportato se gestito con razionalità. Tematiche sociali hanno man mano assunto sempre maggior rilevanza entrando a far parte, anche a livello alpino, di quel più vasto contenitore del cosiddetto sviluppo sostenibile. Non a caso nelle Alpi si sono sviluppati alcuni dei migliori esempi di accoglienza e integrazione nei confronti dei migranti, sono nate delle forme di cooperazione che hanno visto in prima linea giovani, si sono sviluppati – soprattutto in quelle zone più marginali, lontane dal turismo di massa o da quel po’ di industria confinata nei fondovalle – modelli di reti locali, di gestione innovativa dei beni (alberghi diffusi, cooperative di comunità, associazioni fondiarie).
In quegli anni Camera e Senato si rimpallavano – non senza tentativi di insabbiamento – la legge di ratifica dei Protocolli della Convenzione delle Alpi. In particolare va ricordato il tentativo di stralciar il Protocollo “Trasporti”, chiave di volta di tutta la Convenzione, su pressioni delle lobby dei costruttori di autostrade e degli autotrasportatori. Anche se i protocolli (tutti, compreso quello sui trasporti) diventeranno legge dello stato soltanto con il Governo Monti nell’autunno del 2012, nemmeno il Governo Berlusconi – tutt’altro che sensibile alle tematiche ambientali – riuscì a impedire che l’Italia si mettesse alla pari degli altri paesi alpini. Ed oggi, nonostante il Protocollo trasporti continui a subire tentativi di aggiramento e stenti ad essere attuato nella sua interezza, resta una legge dello stato che non è pensabile possa essere modificata o stralciata su richiesta di qualche singolo politico locale in perenne campagna elettorale.
Nel 2009, a due anni dall’inaugurazione, i dati confermavano che gli obiettivi di trasferimento modale del tunnel del Lötschberg erano falliti, che la sola infrastruttura, se non accompagnata da politiche di trasporto, non era sufficiente. Da qui ha inizio, in Svizzera e gradualmente in Europa, il dibattito su eurovignetta e borsa dei transiti alpini. Non in Italia dove il dibattito scivola spesso nello scontro, ma resta confinato a promotori ed oppositori di grandi infrastrutture. Tuttavia è ora sotto gli occhi di tutti che il modello di crescita infinita a cui si rifacevano alcuni economisti e che veniva rilanciato da molti politici – da cui la crescita di merci da trasportare e l’esigenza di infrastrutture per il trasporto di quelle merci –  non è realistico e che le vecchie proposte infrastrutturali non sono la soluzione ai problemi di trasporto e mobilità.
Nel 2009 le Dolomiti ricevono il riconoscimento dell’Unesco quale patrimonio mondiale: forse da quel percorso era legittimo aspettarsi qualcosa in più, qualche scelta più coraggiosa, soprattutto da parte dei politici della regione dolomitica. Più che strumento di tutela, il riconoscimento Unesco rischia di diventare uno strumento di marketing e promozione, per una regione che in gran parte è già asfissiata dal turismo. Purtroppo non basta il riconoscimento Unesco a cambiare le teste dei politici, ma sarebbe un peccato non tenere conto di quanto di buono è stato fatto in questi anni dal mondo scientifico,  dall’associazionismo e dalla stessa Fondazione.
Le Alpi italiane continuano a pagare un carenza di risorse umane, con giovani che troppo spesso una volta istruiti lasciano i loro paesi perché non vi trovano occasioni. Le idee innovative hanno difficoltà ad essere accolte dai territori e ad essere concretizzate. Tuttavia abbiamo incontrato sindaci ed amministratori di piccoli comuni di montagna che hanno dimostrato tenacia e stanno ottenendo molto con poche risorse disponibili e senza svendere il loro territorio. Giovani che si sono fermati o che sono tornati dopo gli studi o che hanno lasciato le città per trasferirsi in montagna. Si tratta di pochi casi, certo, ma anche questo va colto come segnale di inversione di tendenza e sostenuto. Fino a quegli anni gli operatori turistici ritenevano che la montagna non avesse alternative al turismo della neve. Abbiano assistito a crisi economiche e climatiche (inverni senza neve), ma abbiamo anche osservato alcuni tentativi di diversificare l’offerta turistica, anche da quegli stessi operatori dello sci.
Resta in crisi il settore primario, ma da attività residuale si è arrivati ad esperienze innovative portate avanti da giovani con un elevato livello culturale o da nuovi abitanti delle montagne. Oggi fare l’agricoltore di montagna, eventualmente nell’ambito di una pluriattività, è tornato ad essere attraente e può essere anche sufficientemente redditizio. I problemi cronici dell’agricoltura di montagna, l’organizzazione del settore, la concorrenza dell’agricoltura di pianura, non vengono affrontati dalla politica con la stessa enfasi con la quale periodicamente si scaglia contro il ritorno dei predatori. Come se la crisi dell’agricoltura di montagna fosse dovuta solo alla presenza di lupi e orsi…  Infine, per quanto riguarda il sistema degli alpeggi, un tempo fulcro dell’economia montana, purtroppo il sistema dei contributi continua a favorire le grosse aziende di pianura a scapito di piccole aziende locali. Tuttavia si sta cominciando a capire che più che continuare a distribuire contributi senza valutarne l’efficacia, sono necessari provvedimenti legislativi per favorire l’insediamento di giovani agricoltori, lo sviluppo di filiere, il superamento del frazionamento fondiario e contributi legati alle prestazioni degli agricoltori affinché si possa davvero parlare di servizi ecosistemici prestati dall’agricoltura.
Francesco Pastorelli

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