Torino e il Piemonte hanno sempre avuto un ruolo di avanguardia nella pubblicistica e nell’editoria di montagna, che significa informazione e divulgazione, anche scientifica.
La “Rivista” del Club Alpino Italiano nasce a Torino nel 1874 come “L’alpinista, periodico mensile”; diventa “Rivista” nel 1882 e cresce sotto la spinta dei più autorevoli studiosi e divulgatori del Club. Nell’Ottocento la “Rivista” è preceduta (1865-1901) e poi affiancata dal “Bollettino” del CAI, pubblicazione annuale con intenti di approfondimento alpinistico e culturale che dirada le uscite tra la guerra e il Ventennio, per chiudere definitivamente nel 1967. Inoltre la Sezione di Torino edita dal 1949 al 1999 l’annuario “Scandere”, dedicato specificamente alla montagna piemontese con approccio soprattutto alpinistico.
Questa tradizione giornalistica subalpina, pur segnata da alterne fortune e sempre improntata a un preciso spirito amatoriale, forma nel tempo una piccola scuola di dilettanti-artigiani, persone in grado di redigere accurate monografie, commentare gli avvenimenti sociali, recensire le pubblicazioni e, talvolta, divulgare argomenti di storia, geografia, etnografia. Così a partire dal secondo dopoguerra, Torino diventa il luogo dove più si scrive e più si ragiona di montagna, dall’alpinismo all’escursionismo, dall’ambiente all’economia alpina.
In corrispondenza del Sessantotto vivaci fermenti culturali scuotono il mondo dell’alpinismo torinese, sempre ricettivo nei confronti dell’innovazione, e maturano i tempi per una rivista “laica” che prenda educatamente le distanze dagli organi istituzionali del CAI e si avvii verso il professionismo. La “Rivista della montagna” nasce nel 1970 grazie all’iniziativa di un pugno di amici appassionati, squattrinati e con idee molto chiare sull’informazione: «Un gruppo di giovani alpinisti piemontesi – si legge sul primo numero – ha recentemente costituito a Torino un Centro di Documentazione Alpina, per la raccolta e lo studio del materiale utile alla conoscenza di ogni aspetto della montagna».
Accanto all’editoriale non appare un duro arrampicatore armato di martello e chiodi, ma tre portatrici di fieno sullo sfondo delle Levanne. Il direttore è Piero Dematteis e la “Rivista” annovera firme prestigiose come Paolo Gobetti, Marziano Di Maio, Gian Piero Motti, Alberto Rosso, Giorgio Daidola. La redazione è un vivace laboratorio di idee che, in un tempo in cui le Alpi non sono ancora “terra” completamente divulgata, partoriscono selezionati articoli sulla cultura e l’economia montana ed esemplari monografie escursionistiche e alpinistiche. Un giusto insieme di spirito critico, approfondimento scientifico e intento divulgativo.
Alla fine degli anni Settanta il quadro è già completamente cambiato. È l’alba dell’alpinismo sportivo, e le riviste devono tenere il passo. In Italia il 1980 segna l’avvento di “Airone”, il mensile patinato di divulgazione naturalistica che fa scuola al settore dei mensili. In Francia i periodici “Alpinisme et Randonnée” e “Montagnes Magazine” rivoluzionano la grafica e il modo di raccontare la montagna. Lo stesso alpinismo stenta a riconoscersi: irrompono gli exploit e le immagini sensazionali. E così, mentre già si mormora di gare di arrampicata, la Rivista della montagna diretta da Roberto Mantovani subisce la concorrenza di un nuovo giornale colorato e aggressivo come i nuovi tempi: “Alp, vita e avventura in montagna”. Il mensile nasce nel 1985 sull’onda dell’arrampicata sportiva e delle denunce ambientaliste, unendo due professionalità cresciute nel Centro di Documentazione Alpina (il sottoscritto, primo direttore del giornale, e Furio Chiaretta, esperto di escursionismo), una firma nota del giornalismo “verde” (Walter Giuliano, attuale direttore) e un editore (Giorgio Vivalda) dotato di mezzi e ambizioni. L’innovazione di Alp è quella di informare sui fatti della montagna con gli strumenti giornalistici ed estetici delle altre riviste, senza rifluire nelle logiche asfittiche della comunità chiusa. Alp racconta per venticinque anni l’alpinismo e affronta senza condizionamenti i grandi problemi del territorio e dell’ambiente alpino, lo sfruttamento turistico, il degrado, la salvaguardia, le politiche dei parchi, oscillando tra lo sport e l’“altra montagna”. Recentemente il giornale ha incorporato la Rivista della montagna.
Nel 1999 parte il progetto de “L’Alpe”, il primo periodico espressamente dedicato alla divulgazione scientifica alpina. Nata in Italia a pochi giorni dall’anno 2000, L’Alpe è il frutto della collaborazione transfrontaliera tra l’editore eporediese Priuli & Verlucca e il partner francese Glénat, con l’apporto fondamentale del Musée Dauphinois di Grenoble. Due riviste sorelle con lo stesso nome e gli stessi obiettivi sui due versanti delle Alpi. Un ambizioso progetto nel quadro della nuova Europa che sta crescendo attorno alla spina dorsale alpina.
Diretta dal sottoscritto sul versante italiano e da Pascal Kober su quello transalpino, L’Alpe si basa su un impianto monografico costruito insieme dalle due redazioni. L’autorevolezza è garantita da un comitato scientifico che unisce i migliori studiosi delle varie discipline e inizia un paziente lavoro di confronto. Sugli oltre mille chilometri delle Alpi esistono centinaia di ricercatori che si occupano di montagna, operano decine di musei e di fondazioni culturali, e un gran numero di associazioni si batte per salvaguardare l’ambiente alpino e per difenderlo dall’egemonia della cultura urbana. Eppure resta un grande vuoto da colmare: bisogna unire ciò che è disperso, aiutare gli studiosi a comunicare, gettare un ponte tra l’Università e le amministrazioni, e soprattutto divulgare il sapere.
Ecco il primo intento della rivista, che in Italia esce con cadenza semestrale. Il numero 1 del dicembre 1999 è dedicato alla storia dell’uomo sulle Alpi, da Ötzi (la famosa mummia del Similaun) fino al terzo millennio. Il numero 2 si occupa del mitico “bestiario alpino”, dai simboli dell’antichità al ritorno dei grandi predatori sulle Alpi. Il numero 3 tratta il colorato e raffinato universo delle feste d’inverno, seguendo la tesi dell’antropologo Gian Luigi Bravo: la tradizione non si salva in un mondo chiuso, ma ha bisogno di fantasia e innovazione. In altre parole, il mondo alpino deve accettare di “contaminarsi” con il mondo urbano se non vuole diventare un museo di se stesso. Il numero 4 si affaccia sull’alpe delle donne, che significa infrangere il vecchio luogo comune della montagna maschile e maschilista, popolata sempre da uomini duri, guide, portatori, contrabbandieri, emigranti, eremiti. Al contrario, come scrive l’antropologo Pier Paolo Viazzo, «non mancano gli elementi che inducono a credere che le Alpi fossero “terra di donne”, non tanto perché le donne venivano lasciate sole per gran parte dell’anno a sfruttare le magre risorse di lande desolate e primitive, ma piuttosto perché occupavano un posto centrale in società vitali all’interno delle quali hanno avuto la possibilità di sperimentare, prima che altrove, una inconsueta parità di condizioni nel lavoro e una altrettanto inconsueta autonomia».
L’Alpe porta avanti queste intuizioni per dieci anni, fino all’ultimo numero del dicembre 2008, dedicato alle guerre alpine del Novecento. Travolta dalla crisi economica e più ancora da una crisi culturale che inibisce la ricerca e la divulgazione in Italia, L’Alpe italiana interrompe le pubblicazioni e con la rivista si chiudono i battenti di una casa che era stata aperta per chi aveva voglia di pensare, ragionare, discutere. L’Alpe non era solo il luogo dove nascevano gli articoli e si raccoglievano le immagini, ma anche e soprattutto un posto in cui confluivano le ricerche e le idee sulle Alpi, confrontandosi e germogliando altre idee.
Oggi questo ruolo, non più favorito da alcun contributo pubblico ma ugualmente sostenuto da serio spirito di ricerca e divulgazione, è stato ereditato da Dislivelli.
Enrico Camanni