Sulla migrazione verso le terre alte Dislivelli ha aperto la strada alla riflessione già dieci anni fa. E non poteva essere diversamente, dato che la nostra associazione e la nostra rivista sono nate innanzitutto per studiare i fenomeni della rinascita alpina e appenninica, dopo la lunga (e non conclusa) stagione dello spopolamento montano.
I “nuovi montanari” sono stati, e ancora sono, uno dei principali temi di ricerca e di divulgazione sin dall’inizio, investigati in modo pioneristico dapprima da Beppe e Maurizio Dematteis, Federica Corrado ed Enrico Camanni, e poi dagli altri soci e amici che si sono nel tempo avvicinati al gruppo fondatore, attirati dallo spirito di riscoperta della montagna italiana che cominciava a diffondersi a partire dal Piemonte e dalle Alpi occidentali.
Certo, la questione non è stata da subito affrontata in termini di processi migratori, o perlomeno non era quello il focus principale delle ricerche. Quanto si cercava di cogliere erano piuttosto le puntuali e spesso avventurose biografie di chi decideva di abbandonare la città, per avviare un allevamento di capre o una coltivazione di piccoli frutti in qualche valle di quelle che ancora non erano state tematizzate come “aree interne” (né ancora era in campo l’omonima strategia nazionale Snai).
Interessava più di tutto analizzare i segni di un cambiamento culturale, di una forma di ribellione a certi aspetti della vita urbana che, tuttavia, non mostrava il carattere romantico o ideologico del neo ruralismo degli anni Settanta. Piuttosto erano le strategie molto pragmatiche di chi cercava di costruirsi una reale possibilità di vita e di lavoro nel “mondo dei vinti” ad attirare l’attenzione: come facevano concretamente? Da che cosa erano spinti? Di quali valori e di quale concezione della montagna erano portatori?
Nello studiare questi fenomeni, e nel discuterne sulla rivista come a convegni ed eventi sul territorio, ci rendevamo conto delle enormi potenzialità offerte dalla rarefazione sociale che caratterizzava le nostre montagne: si poteva, per dirla con l’antropologo Francesco Remotti, “approfittare del vuoto”, come spazio di innovazione sociale e culturale, come ambito in cui creare una nuova economia, un nuovo sistema di relazioni, improntato a schemi di lettura del territorio molto lontani da quelli del passato anche recente.
Infatti, questi primi processi migratori (perché di questo si trattava, in ultima analisi), ci parlavano sì di una forma radicale del riabitare le terre alte, lontano dalle aree metropolitane già allora colpite dalla crisi economica e sociale, ma non di una tendenza all’isolamento, all’autarchia. Al contrario, i “nuovi montanari”, esprimevano un bisogno di montagna che raramente era disgiunto da un complementare bisogno di città: in un tentativo, a tratti a rischio di strabismo, di guardare ad entrambi i poli di un movimento che non si voleva interrotto, di un pendolo che non cessava di oscillare. Diversi anni dopo, sarà l’opera e la figura stessa dello scrittore Paolo Cognetti ad incarnare – anche mediaticamente e con grande seguito – questa tensione, questo desiderio non facile di tenere insieme la modernità urbana con la ruralità montana dai tratti pre moderni.
Dunque Dislivelli studiava migrazioni interne, per usare il linguaggio dei demografi. Investigava storie di radicamento e raccoglievamo statistiche su casi di successo (come di fallimento), dove lo spostamento, la mobilità a lungo o corto raggio, le strategie di conciliazione temporale, lo “stiramento” delle relazioni, erano tutti elementi in campo in una più ampia riconfigurazione del rapporto città-montagna. Un cambiamento epocale che, seppur con numeri piccoli, si manifestava in questa tendenza dei neo montanari a cercare di superare la sudditanza delle terre alte rispetto alla pianura industrializzata, in questa ricerca di un nuovo rapporto culturale e territoriale tra le due anime del Paese. Una inversione dello sguardo, dai margini al centro, come più avanti tematizzerà acutamente Antonio De Rossi nel suo volume collettivo “Riabitare l’Italia”.
Attenti alla dimensione culturale e ai movimenti demografici interni, ci siamo imbattuti quasi per caso in tutt’altro fenomeno migratorio, quello internazionale. Pastori macedoni dispersi sui monti della Laga, tagliaboschi kosovari nelle foreste delle Dolomiti friulane, muratori del Magreb intenti a sistemare muri a secco nell’Appennino ligure, badanti ucraine come unico sostegno a vecchi montanari del Trentino o della Val d’Aosta, altrimenti costretti a scendere negli ospizi di fondovalle. Alla ricerca dei nuovi abitanti delle terre alte, pensando a chi aveva fatto della montagna una scelta di vita, abbiamo incontrato gli invisibili, ma ben più numerosi, montanari per necessità, che tanta scelta non avevano avuto. Quei migranti che spesso erano arrivati dall’estero (per vie fortunose) nelle aree urbane di pianura, per poi venire spinti verso la montagna dal costo della vita e dalle condizioni socio-economiche difficili delle metropoli e, nel contempo, attirati verso le valli dalle possibilità lavorative, dalla disponibilità di alloggi, dalla maggiore sicurezza offerta da piccoli contesti comunitari, rispetto al crescente razzismo e all’intolleranza che sviluppavano nelle città.
Il filone di studio e di comunicazione sui nuovi abitanti della montagna si è così arricchito di nuovi elementi di riflessione, con l’ingresso nel dibattito di un nuovo, per quanto mai così netto, discrimine: quello tra scelta e necessità. Abbiamo capito che in montagna in tanti erano arrivati non con un progetto elaborato negli anni (e solitamente in possesso di un capitale culturale ed economico) ma piuttosto come una seconda opportunità, non certo ipotizzata quando si erano messi in viaggio da altri continenti per raggiungere la ricca Europa. E che, nonostante ciò, proprio le Alpi e gli Appennini, con le loro enormi risorse abbandonate o poco sfruttate, avevano offerto uno spazio a queste persone, convincendole spesso a restare, a farsi appunto montanari, portatori di cambiamento potenziale, così come di possibili tensioni, di necessarie negoziazioni con gli abitanti autoctoni rimasti.
Infine, ma è cronaca degli ultimissimi anni, l’arrivo in montagna dei richiedenti asilo e dei rifugiati, la loro collocazione forzosa nelle aree interne, secondo un modello di dispersione geografica extra urbana, per decisione dello Stato centrale oppure su proposta degli enti locali, nell’ambito del sistema Sprar e di quello dei Cas. Dai montanari per scelta, a quelli per necessità, siamo dunque giunti a investigare e a raccontare quelli che – dalle pagine di questa rivista (e dall’omonima rubrica) – abbiamo chiamato i montanari per forza. Costretti nelle terre alte per anni, in attesa di pronunciamento sulle loro domande di protezione internazionale, all’interno di una casistica molto variegata eppure riconducibile in fondo a due opzioni: lo sfruttamento (anche economico) della “accoglienza” dei migranti in grandi centri, spesso gestiti da organizzazioni di pianura, senza ricadute positive sui territori ma solo sfruttando i “vuoti spaziali” a disposizione (ex caserme, alberghi in disuso, ecc.); e d’altro canto la valorizzazione della presenza (anche temporanea) degli stranieri da parte di realtà locali convinte che si potessero così attrarre risorse e attenzione sulle zone dimenticate del Paese, dentro modelli embrionali di sviluppo locale poi messi drasticamente in crisi dalla normativa securitaria dei recenti decreti in materia di immigrazione.
Siamo così arrivati, in questi dieci anni, a dare il nostro contributo ad una analisi complessa dei fenomeni sociali, economici e demografici che interessano le montagne del nostro Paese. Abbiamo azzardato ipotesi e proposto interventi. Aperto e tenuto vivo un dibattito pubblico, non solo tra esperti, sul ruolo che le nuove popolazioni degli abitanti della montagna possono rivestire per riattivare le terre alte ma anche per ripensare lo sviluppo complessivo di una nazione che troppo a lungo si è dimenticata di essere per tre quarti montana e per quasi metà anziana. Una nazione che ha bisogno di migrazioni (interne e internazionali) verso le terre alte e di nuovi equilibri città-montagna, nell’ambito di una visione complessiva dello sviluppo territoriale che sino ad oggi alla politica e alle istituzioni pare mancare.
Andrea Membretti