Se associamo la montagna a qualche forma di divario, di frattura, probabilmente ci verrà in mente quel mountain dividemultidimensionale che colpisce chi è rimasto a vivere nei territori interni alpini e appenninici, interessati da forme articolate di “diseguaglianza posizionale”.
Un tipo importante di divario è sicuramente quello legato alle connessioni urbano-rurali e, più in generale, alla accessibilità delle aree interne: strade, naturalmente, e mezzi di trasporto; ma oggi, ancora di più, connettività digitale; e poi accesso effettivo ai servizi essenziali: salute, educazione, cultura. E ancora, opportunità di lavoro e di crescita professionale.
Questo è il divario che colpisce in primo luogo quanti si sono trovati, anche loro malgrado, a nascere e a vivere nei territori montani o comunque le persone con ridotta possibilità di scelta rispetto alla propria mobilità o al trasferimento di residenza altrove: gli anziani, per esempio, che non possiedono o non possono più guidare un’automobile, vivendo in luoghi poco o per nulla serviti dal trasporto pubblico; i migranti stranieri, senza mezzi di trasporto propri e in certi casi senza neppure il permesso di allontanarsi dal luogo di domicilio (i “montanari per forza”, richiedenti asilo e rifugiati, ospitati temporaneamente in località montane spesso remote); i soggetti con limitate risorse economiche, che desirerebbero lasciare la montagna ma non possono permettersi i costi della vita in città; i giovani studenti, ancora nella famiglia di origine e costretti a pendolare – per diverse ore al giorno – da e verso le città di pianura o di fondovalle, per seguire il proprio percorso di studi; e anche chi ha una ridotta dotazione in termini di capitale culturale, e che quindi non riesce a costruirsi un futuro altrove o nemmeno a immaginarlo.
Per queste e altre categorie di persone, la montagna, specie quella interna, rappresenta indubbiamente una forma di ghettizzazione, che si traduce in una sostanziale riduzione o mutilazione dei diritti di cittadinanza, oltre ad impattare in modo significativo sulla qualità della vita individuale e sulle effettive possibilità di sviluppare le proprie capacità e aspirazioni.
La distanza dai grandi centri urbani e dai nodi della interconnessione globale tuttavia non è da tutti vissuta come divario, come frattura, come ostacolo.
I dati che abbiamo raccolto negli ultimi anni rispetto al fenomeno dei nuovi montanari e, ancor di più, all’onda in crescita degli “aspiranti montanari” (quelli che si rivolgono alla Scuola di Montagna, per esempio), ci mostrano eterogenei gruppi di popolazione per i quali quella distanza, la remoteness che caratterizza tanti luoghi montani, è al contrario percepita (e infine agita) come un valore, come un fattore di attrazione ed un elemento di posizionamento sia spaziale che identitario.
Vivere, o immaginarsi di vivere in futuro, in luoghi “appartati”, dotati di importante capitale naturale e a forte carica simbolica (in particolare, legata al persistente immaginario alpino ma anche, più di recente, a quello appenninico), diventa una pratica dotata di valore di per sé. Una pratica situata in una precisa porzione di spazio.
Come ci ha dichiarato qualche mese fa uno dei numerosi utenti del servizio torinese “Vivere e lavorare in montagna”, promosso da Università di Torino, SocialFare e Città Metropolitana: «E’ arrivata l’epoca in cui il luogo dove agisci diventa altrettanto importante delle cose che fai». E questo luogo, per tanti, è diventato la montagna: una montagna anche remota ma la cui distanza dai centri urbani viene gestita in modo intermittente e fluido da questi abitanti, spesso giovani e dotati di mezzi di trasporto personali, e quindi in grado di alternare separatezza e vicinanza rispetto al mondo di pianura, parziale isolamento e costante interconnessione (l’accesso a Internet è infatti per quasi tutti un prerequisito essenziale per vivere sì distanti ma comunque in relazione con l’esterno).
Per questi soggetti, quella che possiamo coerentemente chiamare “metromontagna” diventa allora uno spazio delle opportunità, della creatività, e in modo crescente anche dell’abitare multilocale, quando non del nomadismo digitale. Non senza ostacoli, naturalmente, che i neo abitanti spesso evidenziano (dalla mancanza di servizi alle poche occasioni di cultura) ma che sono spesso ritenuti parte della sfida di un abitare radicalmente diverso rispetto a quello agglomerato e denso (e sempre più insostenibile) delle metropoli.
Un fenomeno nuovo è poi costituito da quelle forme di “migrazione verticale”, spinte negli ultimi anni dall’intensificarsi degli effetti del cambiamento climatico nelle grandi aree metropolitane e nelle zone di pianura in genere, come quella padana. Dai dati appena raccolti tramite l’indagine MICLIMI – che saranno presentati ufficialmente il 6 novembre all’Università di Torino (dalle 14.30, in aula 3D233, presso il dipartimento CPS, Campus Einaudi) – non sono poche le persone che vedono nelle aree montane, meglio se sopra la quota dei 1.200-1.500 m., un rifugio dove ritirarsi, specie in estate ma anche in modo permanente, per sfuggire alle ondate di calore, al deteriorarsi della qualità dell’aria e, in generale, all’impatto negativo delle nuove condizioni climatiche rispetto alla vita quotidiana e alla salute nei luoghi fortemente urbanizzati.
Anche per i “migranti verticali” la montagna potrà dunque essere luogo (relativamente) lontano dalle città e, al contempo, a queste ultime connesso da una “distanza di sicurezza”, in virtù ancora una volta delle risorse personali rispetto alla mobilità individuale, ai servizi online e quindi all’accesso a Internet.
Sulla base di queste brevi considerazioni, e considerando i trend futuri che si delineano, credo che sia necessario oggi leggere il mountain divide in modo più articolato, in rapporto alle diverse categorie di persone che vivono (o vorrebbero vivere) la montagna, ai loro immaginari e soprattutto alle pratiche che concretamente possono attuare, in base alle loro dotazioni di risorse materiali e immateriali.
Quello che per alcuni costituisce oggi (e ancora di più in futuro) un divario escludente o addirittura una forma di ghettizzazione socio-spaziale, per altri rappresenta una risorsa e una potenzialità. La distanza (fisica e temporale, in termini di tempi di attraversamento) dalla pianura e dalle metropoli, tipica di tanti luoghi interni montani, non è la stessa cosa per tutti e non si riduce all’oggettività dei chilometri da percorrere: classe sociale, capitale culturale, reti lunghe di relazioni, strumenti e mezzi a disposizione, possono trasformare il divide in una forma di “giusta distanza”, favorendo un diverso equilibrio tra i luoghi e nuove modalità di rapporto tra spazi e persone. Al contempo, corriamo il rischio concreto che per molti permangano e si intensifichino le diseguaglianze posizionali, pur vivendo in quegli stessi luoghi montani in cui e da cui altri vanno costruendo progetti di vita che anche su quel divide poggiano – spesso inconsapevolmente – le proprie fondamenta.
Andrea Membretti
Class 1967. Nata e cresciuto a Torino Centro ho trasferito 10 anni fa insieme al mio compagno nato e cresciuto a Berlino Ovest in Valle Orco, nel paese a 600 mslm dove ho trascorso le vacanze con la mia famiglia. La formazione e gli amici consolidati di Torino unitamente alla possibilità di raggiungere la città con 60 km di percorrenza, oltre a internet e infinite possibilità di acquisto sul web ci hanno dato la possibilità di godere della natura senza sentirci esclusi. Non credo che la stessa scelta di vita sarebbe stata possibile anche solo 40 anni fa. Da giovani la città offre stimoli e opportunità nonbparagonabili, più in là con gli anni si scopre che questo patrimonio può essere preservato anche posizionandosi lontano.
Grazie del commento, Elena. E’ esattamente il tipo di opportunità a cui mi riferisco nell’articolo e che, come dici, oggi sono presenti per diverse categorie di persone, grazie a mobilità e connessioni metromontane.