Chiara e Simone, titolari dell’Azienda agricola La Calcina e abitanti dell’omonima borgata in Valle di Susa, mi scrivono un’accorata lettera per raccontarmi delle loro difficoltà nate negli ultimi mesi:

«Siamo una famiglia di 4 persone, che dalla pianura sette anni fa ha fatto i bagagli e si è insediata in una piccola borgata della bassa Valsusa: borgata Calcina, comune di Condove. Abbiamo trasferito non solo la nostra abitazione, ma anche il nostro lavoro, perché qui abbiamo avviato una piccola azienda agricola biologica di coltivazione e trasformazione di erbe aromatiche e officinali. Produciamo tisane, condimenti da cucina, sciroppi. Il nostro percorso di vita, per nulla lineare o predeterminato, ci ha condotto qui, in una borgata piuttosto isolata: non lontana dal fondovalle e dalle altre borgate ma decisamente “tajà fora”. Infatti non esiste una strada carrozzabile, ma solo mulattiere e sentieri. Inevitabilmente, ci si sposta solo a piedi.

Vivere senza strada non è comodo. Per niente. La quotidianità è faticosa: accompagnare i bambini a scuola, fare la spesa, buttare l’immondizia, sostituire le bombole del gas e via discorrendo. Ma la vera criticità sono i trasporti, in particolare i materiali edili per la ristrutturazione delle case, oltreché tutti i prodotti primari e i prodotti trasformati dell’azienda agricola. Senza una strada, tutto viaggia sopra una motocarriola, un piccolo transporter cingolato, un “mulo meccanico” con motore a scoppio anziché muscoli a biada. Stile rifugio, per intenderci.

Il transito di questo piccolo mezzo necessita di una mulattiera vera e propria, non è sufficiente un piccolo sentiero. Il suo ingombro, in effetti è paragonabile a quello di un mulo con il basto. Ebbene, qui sta l’inghippo, perché per avere una mulattiera adeguata alla nostra motocarriola siamo stati costretti dalle circostanze a commettere un azzardo: abbiamo risistemato una vecchia mulattiera indicata sulle mappe catastali, ma ormai persa tra cumuli di rovi e alberi crollati al suolo. E ne abbiamo modificato in parte il percorso, involontariamente. Si dice che quando vuoi sapere di chi sia un appezzamento di bosco abbandonato, basta che accendi una motosega e la risposta arriverà direttamente da te. A noi la risposta è arrivata sotto forma di esposto da parte dei proprietari dei terreni attraversati dal nostro intervento. L’esposto ha innescato una specie di reazione a catena, che nessuno fino ad ora ha voluto interrompere: tre sopralluoghi della forestale, due dell’ufficio tecnico del comune, un processo penale per devastazione di beni tutelati, sanzioni economiche e, infine, una ordinanza di demolizione della mulattiera. Tutto ciò per un tratto lungo 220 metri e largo poco più di un metro e mezzo.

Per noi e per la nostra attività è fondamentale non perdere la mulattiera. Abbiamo fatto ricorso al TAR, in modo da ritardare la demolizione della mulattiera e avere una speranza di uscire dal tunnel.

Alla metà di marzo di quest’anno è arrivata la sentenza: poiché sono presenti varie differenze con la traccia segnata sulle mappe catastali, si tratta di una opera ex-novo, per cui avremmo dovuto chiedere le relative autorizzazioni, ovvero il permesso di costruire e l’autorizzazione paesaggistica. La “mulattiera incriminata” è così diventata ufficialmente la “mulattiera abusiva”.

Due sono le nostre riflessioni: quanto sono difficili e deleteri i contrasti che si creano con i proprietari confinanti, su beni di prima necessità: nel nostro caso, l’oggetto del contendere è il passaggio, in altri casi è l’acqua, in altri chissà; ci vuole una grande forza di volontà per reggere la pressione che si genera, perché il confronto è facilmente impari; da un lato perché il nuovo montanaro è “forestiero” e generalmente non ha una rete sociale forte che lo sostiene, dall’altro perché non si può trattare con chi ha abbandonato i terreni e non ha nulla da perdere.

E poi c’è il ruolo delle istituzioni, in particolare i comuni; nella nostra esperienza, anche se abbiamo avuto la fortuna di incontrare amministratori competenti, osserviamo che il comune tende al disimpegno, ovvero a trattare la nostra questione come un normalissimo litigio tra privati e, di conseguenza, senza mettere in gioco il proprio peso istituzionale».

Chiara e Simone

Ho avuto modo di conoscere La Calcina lo scorso autunno, quando avevamo condotto, proprio lungo la “mulattiera abusiva”, un gruppo di venti “aspiranti montanari” che stavano partecipando alla nostra Scuola di Montagna. I partecipanti alla Scuola vedevano il vostro come un modello di insediamento autonomo in montagna, un’impresa familiare, una unità minima comunitaria.

Voi, Chiara e Simone, avete liberamente scelto di vivere “tajà fora”. Lo avete fatto, io credo, perché avete colto il potere semantico, la forza evocativa, il carattere anzitutto simbolico (oltre che il valore estetico) del vivere sul confine tra abbandono e restanza, tra mondo (nuovamente) selvatico e mondo (ancora) antropizzato, di cui in qualche misura vi sentite oggi custodi, nel senso più nobile del termine.

E però. C’è un però. L’immagine della montagna che avevate coltivato si è scontrata presto con la vita quotidiana di una famiglia con figli in età scolare, di una piccola azienda agricola che deve dare reddito. I “beni primari” passano anche attraverso una strada, e sui cingoli di una motocarriola passano sempre con fatica ma un po’ minore che sulla schiena e sulle gambe. Quindi avete rivendicato, con la vostra pratica concreta, il diritto ad una connessione fisica e sociale (che fosse per voi umanamente sostenibile) con il mondo. Ovvero avete praticato nei fatti quello che io chiamerei il “diritto alla metromontagna”; il concetto di “diritto alla città”, elaborato dal filosofo Henri Lefebvre nel secolo scorso. Le Alpi dell’abbandono, tuttavia, e dello spopolamento che colpisce tante contrade, non sono territori vuoti. Lo abbiamo appreso (almeno i cittadini come me) vent’anni fa, guardando “Il vento fa il suo giro” di Giorgio Diritti.

Quello che mi pare insegni la vostra storia è che la montagna contemporanea ha più che mai bisogno di mediazione, di negoziazione, di sfera pubblica, in ultima istanza. Le istituzioni locali, anche quelle animate da persone di buona volontà, devono essere preparate a gestire la complessità della montagna di oggi, e di quella del prossimo futuro. Servono competenze e formazione specifica, per passare dalla già non facile ordinaria amministrazione alla negoziazione dei diversi interessi in campo, a partire dai possibili conflitti tra nuovi abitanti e residenti storici, tra innovatori e conservatori. Se non si investirà in modo ampio, innovativo e mirato, a partire dallo Stato centrale, nella capacitazione delle istituzioni locali metromontane, le crescenti tensioni nel mondo della montagna rischieranno di prendere sempre più la strada delle controversie legali, quando non forniranno piuttosto materia utile ai fautori di populismi di varia specie.

Andrea Membretti

«Caro Andrea, leggiamo le tue riflessioni come una boccata d’ossigeno, perché restituiscono interesse pubblico alla nostra vicenda, che continua a essere gestita come una semplice bega tra privati. In effetti, da quando viviamo alla Calcina, l’ambito dei “problemi nostri” si è molto allargato. Quando cade un albero sulla mulattiera non c’è altro da fare se non tagliarlo. Quando la bealera si intasa e non arriva l’acqua, idem, stesso discorso. Ma questo impegno raramente viene riconosciuto e gratificato, anzi, spesso percepisco un sentimento diffuso riguardo alla scelta di vivere in montagna, dove pare essere normale dover tribolare. Un riscontro frequente che abbiamo ricevuto è stato: “quando siete andati ad abitare alla Calcina, sapevate in che casino vi stavate infilando, sapevate che non c’era la strada. Quindi? Ora di cosa vi stupite?”.

La tendenza, anche istituzionale, a individualizzare i problemi ignorandone l’aspetto collettivo, è un atteggiamento che ti mette all’angolo e ti chiude. Abbiamo impiegato tempo a scrollarcelo di dosso e, in questo, sono stati determinanti gli amici, i compagni di strada con cui ci confrontiamo e con cui condividiamo idee e progetti. Insieme a loro, siamo riusciti a rompere la dimensione individuale in cui eravamo relegati e possiamo allargare lo sguardo in una direzione collettiva. Ed è qui che vediamo il senso politico della nostra vicenda. Non abbiamo fiducia nella “visione” delle istituzioni, in particolare quelle centrali, che dimostrano nella sostanza una enorme lontananza dalle necessità dei montanari, continuando a tagliare e ad allontanare dalle montagne i servizi pubblici (sanità, trasporti) e destinare ingentissime risorse alla cosiddetta “monocoltura dello sci” e maxi-progetti devastanti come il tav Torino-Lione. Nei nostri borghi che noncostituiscono una meta turistica blasonata, rischiamo che ognuno di noi resti invischiato nelle sue mille incombenze e diventi invisibile. Mi pare indicativo il fatto che nei discorsi delle “autorità” sulla montagna, sentiamo spesso parlare del suo passato, ovvero della cultura contadina (da cui quasi tutti sono fuggiti, ma di cui quasi tutti hanno una virtuale nostalgia), e del futuro della montagna, in cui finalmente ne saranno “valorizzate le potenzialità”. Raramente viene nominato il presente. Ecco, quel presente siamo noi».

Chiara e Simone

https://senzastrada.wordpress.com/