Non si parla del Col d’Izoard, del Falzarego o del mitico Galibier, sogno dei pedalatori fin da quando è stata inventata quella macchina perfetta che è la bicicletta. Un sogno non più proibito, ma oggi alla portata se non di tutti di molti grazie a quel marchingegno che si chiama motore. Motore in questo caso non endotermico, ovvero alimentato da combustibili fossili, ma a batteria e, come tale, “sostenibile” sotto il profilo ambientale. A parer mio un onorevole e accettabile compromesso, pur tra molte perplessità.
Ma qui non si parla di strade, bensì di un’altra categoria di reti di comunicazione: sentieri e mulattiere, ovvero reti risalenti ai tempi in cui Homo sapiens si spostava sulle Alpi e altrove basandosi esclusivamente sugli arti inferiori, propri o, al massimo, di quadrupedi a tal fine addestrati. Infrastrutture di comunicazione che, da qualche decennio in qua, sono utilizzate, molto utilizzate, a scopo ludico per quella nobile e rigenerante attività che va sotto il nome di “camminare”, alla quale filosofi come Henry David Thoreau hanno dedicato mirabili pagine.
Ma i tempi e la tecnica evolvono, o per meglio dire corrono, superando spesso, sempre più spesso, l’umana capacità di comprensione e adattamento. E se perfino l’intelligenza diventa sempre più artificiale e algoritmica, può la bicicletta essere esclusa da questa inarrestabile tendenza? Giammai, e così la Nostra, questo mezzo ammantato di romanticismo, si fa sempre più agghindato di ammennicoli vari e sofisticati, e motori sempre più performanti, al punto che è lecito chiedersi: ma ancora di biciclette si tratta?
Non solo, per quanto riguarda la bicicletta la filosofia del “no limit” in quanto tale non poteva limitarsi alla tecnica, ma, grazie alla tecnica, si è estesa anche al terrain de jeu: dalla strada al sentiero, e dal sentiero al “fuori-sentiero”, fin sulle aspre cime dei monti. Talora sulle spalle del pedalatore fattosi in questo caso porteur, con tanto di selfie sulla cima. Se non condivisa un’impresa che senso ha?
E dal “terrain de jeu” poteva forse essere esclusa l’Alpe Devero? Area protetta già peraltro inclusa in altri progetti di valorizzazione tecnologica dal suggestivo e immaginifico nome: “Avvicinare le montagne”.
Devero, Grande Est e Grande Ovest. Non so chi abbia coniato tali definizioni, ma davvero non si poteva pensare a nulla di più adatto e di più bello. Grandi spazi, inusuali per le giogaie alpine sabaude. Spazi e distanze da misurare con passo ragionato, senza fretta o ansia alcuna, con l’occhio posato da un lato sul Cervandone e sull’Helsenhorn, e dall’altro sulle distese di larici ai piedi del Sangiatto e della Corona Troggi. E la cima dell’Arbola, lontana e remota a occidente, e che tale rimanga.
Sono queste le ricchezze molto esclusive di quest’alpe ossolana che per questo si avvale dello status di parco naturale. Ricchezze quindi da tutelare, da non banalizzare, alterare, svilire con mezzi meccanici a scopo ludico. Soprattutto tenendo conto che, poco lontano, sulle montagne ossolane, ci sono zone attrezzate a tale scopo. E si sale pure in seggiovia. In tal caso la bicicletta (o simil bicicletta), sempre grazie alla tecnica, si sta rivelando un modo ideale per far girare gli impianti in quel lungo (sempre più lungo) periodo di morta fra una neve e l’altra. Dicesi montagna luna park, ci può anche stare, purché circoscritta a zone che sono opportunamente interdette ai camminatori. Concessioni a uso privato insomma (come molte italiche spiagge). Ma Devero no!
“Mi sono innamorato di una bicicletta”. Così titola un inserto salute de La Repubblica. Sottotitolo: “Fa bene, diverte, appassiona. Pedalare è il nuovo must: in città, in montagna, tra le vigne e sui sentieri più antichi”. Già… Anche il sottoscritto è da tempo innamorato della bicicletta. In garage ne conto ben quattro: da corsa (ormai a riposo, in attesa di traslare in un museo), pieghevole da città, da viaggio “muscolare” e, più recente, e-bike per i viaggi che comprendono salite. In montagna o sulle colline che in questa terra ai pie’ dei monti non mancano. All’elenco manca la mountain bike, denominata agli esordi rampichino: per ragioni molto personali questa variante mi ha sempre suscitato una certa diffidenza, e ho sempre giudicato una forzatura l’andar pedalando sui sentieri. O più semplicemente prefiguravo quel che sarebbe accaduto: volenti e nolenti, siamo nella società dove “quel-che-si-può-fare-va-fatto”, alla quale neppure una pandemia ha posto un parziale rimedio.
Una tendenza che, per il mondo “bicicletta”, è emersa con chiarezza nell’incontro (workshop) “Ciclo escursionismo nelle terre alte” che si è tenuto a Torino, Museo nazionale della Montagna, sabato 13 maggio. Tema dell’incontro: “Strategie per la gestione sostenibile del ciclo escursionismo nella fitta rete di sentieri e mulattiere presente nelle montagne e colline della Città metropolitana di Torino”.
A parte germi di timida perplessità inoculati dal coordinatore nazionale ciclo escursionismo del CAI Marco Lavezzo e dalla coordinatrice nord-ovest di FIAB Ada Gabucci, rapidamente derubricati a “spunti di riflessione”, tutti gli interventi hanno esaltato le magnifiche e progressive sorti della montagna rese possibili dall’evoluzione tecnologica del mezzo meccanico (e motorizzato) a pedali. Le cui potenzialità vanno favorite intervenendo, laddove “necessario”, sulle infrastrutture che ovviamente vanno messe il più possibile in sicurezza e rese percorribili anche a un’utenza che si prospetta in forte incremento.
Il mercato spinge, insomma. Quel che significa tutto ciò non è difficile da intuire e, dall’Ossola alle Cozie, si palesano progetti di grande course da una valle all’altra sugli storici percorsi di collegamento. Che in quanto storici sarebbero anche beni da tutelare, ma qualche aggiustamento si potrà pur fare…
I sentieri sono un patrimonio ambientale. E come si concilia la loro tutela con una frequentazione assidua di mezzi motorizzati e quindi di considerevole peso? È sufficiente una corretta conduzione del mezzo? Un’abilità che, si dice, si possa acquisire con i corsi appositi. E come la mettiamo con la convivenza con i camminatori. Bastano il rispetto e il buon senso? Oppure è necessario individuare percorsi separati?
E nei parchi naturali di montagna come appunto l’Alpe Devero? Parchi naturali quali luoghi la cui missione istituzionale consiste nel privilegiare e incentivare altre forme di fruizione, finalizzate alla conoscenza e non a performance adrenalinico-sportive. Nel Gran Paradiso, primo parco italiano, ad esempio, nonostante i guardaparco da anni rilevino nei loro report annuali quale fattore di criticità l’incremento delle bike sulla rete delle mulattiere reali, il consiglio direttivo ha deciso di demandare nel regolamento (adottato a settembre 22) l’onere di individuare possibili percorsi ciclabili ai comuni, con tutte le ricadute anche in termini di responsabilità che questo potrebbe comportare su amministrazioni e sindaci. Che, è noto, hanno ben altre incombenze.
Aspetti etici e ambientali a parte, è evidente che l’individuazione di percorsi ad hoc per mezzi meccanici comporti aspetti fin qui rimossi. Insomma, qualche regola o limitazione. La segnaletica ad esempio, o le precedenze: passa per primo il camminatore o il biker? A destra? A chi sale? Ci si affida al proverbiale e sabaudo buon senso? Che fra un po’ anche sulle strade ci si affiderà al buon senso e il Codice andrà in soffitta…
Intanto qualche limitazione qua e là esiste. Limitazioni a dire il vero non recenti sono attive in alcune aree protette: il Parco regionale valdostano del Mont Avic, il Parco nazionale francese del Mercantour, i parchi regionali piemontesi della Val Troncea e del Gran Bosco di Salbertrand. In Alto Adige i comuni decidono (largheggiando) dove si può e dove no (nonostante la posizione contraria di Alpenverein Südtirol). Anarchia imperante invece nel confinante Trentino: la legge provinciale che poneva limiti basati sulla larghezza del sentiero è stata abolita dall’attuale amministrazione.
Tornando alle Alpi piemontesi, ancora l’Ossola, e l’Alpe Devero in particolare, si conferma area alpina emblematica per un acceso confronto tra due modi di intendere il turismo in montagna. Che in buona misura significa il futuro della montagna. E a Devero il progetto di “adattamento” di un tracciato nel Grande Est per renderlo sicuro e creare compatibilità tra camminatori e pedalatori è oggetto di un recente ricorso da parte del CAI e delle associazioni di tutela ambientale. Ricorso basato sul fatto che la zona è compresa in un sito della Rete Natura 2000.
Fatto non secondario: il progetto di intervento è sostenuto dall’Ente di Gestione dei Parchi dell’Ossola a cui è affidato il compito di tutelare l’ambiente naturale e i valori storici dell’Alpe Devero. C’è qualcosa che non funziona
Toni Farina