Ve la ricordate le barzelletta di Pierino?
«Papà, dove comincia la neve perenne?»
«Ma che dici, figliuolo? La neve comincia sempre per enne!»
Ecco, molto di quanto sta succedendo al mondo dello sci e all’industria della neve risale a quell’aggettivo obsoleto, ma in fondo confortante, che ci insegnavano a scuola: “perenne”. Di solito era abbinato proprio alla neve, perché almeno su quella non si discuteva: in montagna ci sarebbe sempre stata, cadesse il mondo; la neve è perenne e basta. Invece era un’illusione, anzi un falso, perché in natura non c’è niente di perenne, e meno che mai nei progetti umani. Di sicuro nella seconda metà del Novecento, quando le montagne furono trasformate in dorate periferie e lo sci portò soldi e promesse nei luoghi da cui i montanari emigravano per povertà, tutti pensarono che fosse una ricchezza senza fine, ma cinquant’anni dopo siamo qui a leccarci le ferite, non solo per avere spremuto oltre misura certi ambienti e distrutto la loro bellezza, ma soprattutto perché il sistema s’è inceppato e non esistono immediate alternative, dato che lo pensavamo eterno. Perenne, appunto.
La questione è complessa e ogni semplificazione porta fuori strada. Bisognerebbe evidentemente smettere di progettare nuovi impianti, rinnovando quelli vecchi solo quando ha senso, e occorrerebbe distinguere attentamente tra i comprensori “capaci di futuro” e quelli troppo bassi, obsoleti e antieconomici. Fare delle scelte, insomma, non più basate sulla speculazione di corto periodo ma su uno sguardo di lungo respiro, che sappia leggere attentamente le previsioni – purtroppo centrate, e perfino ottimistiche – degli scienziati della neve e del clima.
Nel recente libro-dossier “Inverno liquido”, una grande inchiesta sui territori dello sci dalle Alpi agli Appennini, Maurizio Dematteis e Michele Nardelli dimostrano come ovunque, senza eccezioni, le certezze siano svanite con il riscaldamento climatico, i costi dell’energia, i costi dei biglietti, la neve da cannone e una nostalgia di natura che sfiora anche l’industria artificiale dello sci, spiegandoci come ogni località reagisca alla crisi a suo modo, attingendo a quel po’ di lungimiranza che ha tenuto aperte delle vie d’uscita, oppure sprofondando nella monocultura. Che sia la fine di una storia non c’è dubbio, perché lo sci di massa andrà sempre più sostenuto dagli investimenti pubblici, soldi nostri, e prima o poi bisognerà capire se ce lo possiamo permettere, e decidere dove, ma allo stesso tempo – scrivono i due autori – siamo anche all’inizio di qualcosa, speriamo virtuosa: si dovrà reinventare la montagna turistica invernale e integrare le grandi infrastrutture – funivie, impianti – con il turismo dolce, collegando l’inverno all’estate e alle mezze stagioni. Sarebbe una trasformazione possibile, e anche realizzabile, se solo non ci attaccassimo alle vecchie logiche e ai logori pensieri, ma il gigantesco problema del capitalismo “avanzato” (o avvizzito) nasce proprio da lì: siamo in grado di fare quasi tutto, anche alterare il clima, non a cambiare direzione.
Enrico Camanni