I Mondiali di calcio in Qatar sono terminati, con tutte le contraddizioni culturali e sociali su cui si è discusso quasi quotidianamente nei media e non solo, e subito si mostra una nuova contraddizione emergente di cui però assai poco si discute: quella ambientale, interconnessa a quella economica. L’intento di creare nuovi canali economici e turistici, sulla base dell’accresciuta visibilità, sta per essere monetizzato: possiamo constatarlo con il bombardamento mediatico dello spot VisitQatar. Che si sovrappone a nuovi tormentoni pubblicitari – in ultimo lo spot “Io in un villaggio? Mai! Manda in vacanza i luoghi comuni” – in cui la ripresa turistica post-covid nel 2022 è stata associata a campagne di massa sulla promozione del turismo organizzato – fino a 10.000 km dall’Italia. Un singolo volo organizzato verso queste destinazioni (in sola andata) impatta in termini di CO2 come il consumo medio annuale di un Comune come Usseaux, Lemie, Claviere o Ceresole Reale considerando Doha come meta su un Boeing 777 300 Er – 408 posti a sedere -. Come Monastero di Lanzo, Prali o Sauze di Cesana scegliendo come destinazione la Riviera Maya nello Yucatan.
Il calcolo complessivo di questa nuova forma di schizofrenia del margine climatico non lo si ha al momento, ma potrà essere utile considerare che i soli voli di un anno verso villaggi turistici di una meta molto gettonata e molto più vicina – Sharm El Sheik in Egitto – impattano in termini di CO2 come l’89% delle emissioni delle Alpi piemontesi e il 10% degli impatti dei 14 milioni di abitanti alpini a livello transnazionale (sono mie stime calcolate su fonti UE, tour operators e schede tecniche di progettazione degli aeromobili, avvicinate a confronti già effettuati a livello internazionale intorno agli impatti dei jet privati e le proposte di contenimento all’uso di questo tipo di mobilità d’elite, la più insostenibile).
In parallelo il Parlamento europeo ha approvato la proposta della Commissione per la neutralità climatica entro il 2050, con un piano di divieto di veicoli non elettrici al 2035: di questo invece si è molto discusso – e ad oggi la proposta è tuttavia bloccata per il rinvio del voto formale degli Stati membri in Consiglio per la contrarietà di Germania, Italia e Polonia. A riguardo ha scritto Romano Prodi “la custodia del pianeta è compito e dovere di tutta la società umana” (19.02.2023 su Il Messaggero) e “su questa priorità la nostra Europa è stata assolutamente preveggente. […]Mi desta una certa sorpresa constatare che proprio per rendere concreti i nobili obiettivi allora proposti, il Parlamento Europeo, nei confronti del futuro dell’automobile, si sia schierato in favore dell’unica scelta produttiva nella quale Cina e Stati Uniti si trovano fortemente in vantaggio rispetto all’Europa”. Ma soprattutto “vi sono sostanziali dubbi che la scelta compiuta sia la strada più conveniente per affrontare il problema del degrado del pianeta, data la quantità e la qualità di materie prime necessarie a produrre le batterie che costituiscono il motore dell’auto elettrica e dato l’elevato costo della rottamazione delle batterie stesse”. La grande scommessa infatti si appoggia su una previsione economica – e non ambientale – che il costo per unità di produzione di batterie scenderà nel tempo, mentre questo non è assolutamente detto ed anzi è prevedibile il suo contrario – considerando la rarità delle riserve di litio ed altri metalli della dipendenza elettronica del pianeta – Antropocene digitale (Figura 1), che non riuscirebbe a sostenere lo spostamento su batteria di tutti i veicoli del globo – a meno di innovazioni tecnologiche che rivoluzionino interamente l’efficienza o l’uso di questi materiali: aspetti su cui oggi abbiamo solamente annunci. Analogamente il tema della produzione elettrica: se l’obbiettivo principale globale è infatti la riduzione delle emissioni climalteranti, sembra rivalutato il ruolo assumibile dall’energia nucleare (la valutazione è di James Lovelock, in relazione agli impatti rileggi “Nucleare alpino” sul numero 22 di Dislivelli.eu “Energie alpine“).
Figura 1. Antropocene digitale (da Di Gioia A., Giorda C. (2021), “Antropocene e Geografia. Approcci, narrazioni e problemi aperti nelle nuove rappresentazioni del rapporto fra società umane e natura”, Documenti Geografici, 2, pp.329-341, link articolo https://www.documentigeografici.it/index.php/docugeo/article/view/317, link scaricamento https://www.documentigeografici.it/index.php/docugeo/article/download/317/270)
La proposta inoltre propone un adattamento tecnologico tout court di impronta a-territoriale -, nel senso che non prevede adeguamenti spaziali e territoriali nella sua attuazione fisica. Cosa che non è una novità, in comune con la generale programmazione della mobilità e dei trasporti. “É probabile (scriveva già L. Mazza ne “Progettare gli squilibri”) che gli scarsi successi della pianificazione urbanistica, del traffico e dei trasporti dipendano in misura non marginale dal fatto che nella pratica ci si dimentichi troppo spesso che il traffico (e i trasporti, nda) è una funzione della distribuzione spaziale delle attività, ovvero degli usi del suolo”.
In altri termini: come è possibile prevedere un cambiamento della mobilità senza prendere in considerazione la struttura degli spazi fisici, dei territori della dispersione e delle relazioni tra le diverse attività? Come già prevedeva in verità il piano per la riduzione delle emissioni climalteranti della Convenzione delle Alpi. Associando questo alle esigenze di importanti infrastrutturazioni – si pensi al confronto con le problematiche già vissute negli anni per le questioni legate ai cablaggi delle connessioni telematiche.
Lo è nella dimensione della gentrificazione climatica (rileggi sul n.108 di Dislivelli.eu “Adattarsi o scomparire” l’articolo “Riprogettare l’Antropocene” https://www.dislivelli.eu/blog/riprogettare-lantropocene.html), ovvero la previdibilità di scenari di innesco verso processi di emigrazioni per occupazioni e residenze non più economicamente sostenibili, viceversa attrazione verso nuove forme di migranti climatici classificati come elitari ed ancorati a professioni dell’immateriale. In altri termini il rischio è di spopolare la montagna produttiva ancorata alle risorse locali e al patrimonio, caratterizzata dalla qualità del lavoro piuttosto che dal capitale, per attrarre differenziati radicalismi chic delle economie urbane delle economie dei flussi – quelle che già durante il periodo Covid teorizzavano la crisi della centralità delle città, per ipotizzare idealizzati luoghi della dispersione del lavoro durante il relax. Bisognerà poi dirgli che in montagna la spesa su Amazon non viene consegnata.
Ricchezza globalizzata, povertà localizzata, scrivevano già Ulrich Bech e Zygmunt Bauman. Nella transizione di qualcosa nuove rotte turistiche intercontinentali a 250€ non vengono considerate sostenibili e probabilmente ipertassate, da piani multisettoriali di politiche attive sistemiche. E forse si ipotizzerebbe un riadeguamento delle economie globaliste, coinvolgendo le 2 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2 delle esportazioni di sottoprodotti cinesi (calcolo di Edo Ronchi), e gli altri flussi intercontinentali.
Cercando sulla Treccani la voce “Qatar” dal 2023 non compaiono i voli di Doha, compare invece un’altra voce indicata come neologismo: “Qatargate“. Non si vuole spostare il discorso sulla semantica, ma è da molto tempo che non è così utile la lettura di un dizionario.
Alberto Di Gioia