Cinque anni fa Gian Paolo Serino scriveva provocatoriamente su “Il Giornale”:
«Il fenomeno erosivo di cui vogliamo parlare oggi è quello dei romanzi ambientati in montagna. Dopo la vittoria del Premio Strega 2017 da parte delle Otto montagne di Paolo Cognetti saranno usciti almeno 200 libri ambientati tra Dolomiti, Sud Tirolo, Valle d’Aosta, Val di Susa, Val Venosta. Una vera valanga di libri che non sempre volano ad alta quota…»
L’osservazione era giusta, anche se Serino mostrava di non aver letto per davvero quasi nessuno dei testi che metteva alla gogna, e forse neanche i pochi che salvava. Però era vero, e lo è ancora oggi: si scrive di montagna come non mai e, inevitabilmente, ai libri buoni si affiancano libri mediocri. L’incremento della mole non corrisponde a una salita a picco della qualità. Come potrebbe?
Il punto è un altro: la montagna ha incorporato il linguaggio narrativo, e viceversa. Se all’inizio del millennio c’erano lo scrittore di montagna per eccellenza – Mario Rigoni Stern – e qualche sparuto discepolo che gli andava dietro, oggi sembra addirittura ridicolo parlare di letteratura di genere, perché finalmente il romanzo ambientato nelle terre alte incrocia tutti i campi e tutti i precipizi, emergendo a suo rischio e pericolo dal cenacolo degli habitué. Usando altre parole, si può dire che la montagna sia “di moda”, nel senso che la letteratura alpina è uscita dalla nicchia in cui si era auto reclusa e prova a parlare a tutti, utilizzando spesso chiavi popolari che si ispirano alle storie familiari, alla natura curatrice, al silenzio, all’ascolto e alla contemplazione. Nei testi contemporanei si propone una new age delle terre alte che non si contrappone al consumismo urbano, ma lo affianca e talvolta prova a superarlo con una sorta di neoumanesimo alpino (e appenninico). Non c’è quasi mai un’esplicita denuncia politica e sociale, ma c’è molto spesso la sublimazione di un vivere e un sentire alternativi alla città.
Se la letteratura dell’alpinismo, insidiata dal web e dalla fretta, non vive certo uno dei periodi più fecondi e insiste senza troppa fantasia sull’unico genere che ha imparato – l’autobiografia –, i racconti e i romanzi che riempiono le librerie non trattano di scalate estreme e affermazioni sportive, ma parlano di una montagna intesa come spazio naturale e abitativo, e come teatro di storie e sentimenti. Questa in fondo è la vera novità: esiste un sentimento della montagna al tempo di internet.
Una nuova retorica? C’è anche quella, e sembra sfogarsi in varie direzioni. Per esempio, mentre l’autore più affermato – il valligiano Mauro Corona – sforna storie di montagne dure e violente, gli autori cittadini dipingono monti misteriosi, gentili e salvifici, ed entrambi trovano riscontro di pubblico. Vuol dire che la montagna gode di un rinnovato trasporto, quindi piace, convince e vende pur mostrando facce diverse o addirittura contraddittorie. Un territorio si apre a vecchi e nuovi lettori, l’alto e il distante fanno tendenza, e quando un argomento tira il pubblico non va poi tanto per il sottile.
Mi sembra un bene che se ne scriva generosamente: è la certificazione che le alte terre parlano al nostro tempo confuso e disilluso, sta a noi centrare le parole. Scrivere di montagna non è più un mestiere per pochi, se ne occupano le piccole e le grandi case editrici, anche gli editori generalisti, e per imitazione il cantiere va allargandosi. In un paese in cui l’ambientazione delle storie sembrava eternamente confinata alle pianure e alle città, è positivo che si scoprano nuovi orizzonti.
Che ci siano margini di miglioramento è evidente, dipende dagli scrittori e dagli editori. Affinando le tecniche, scremando i luoghi comuni, rinnovando il linguaggio arriveranno forse ottimi libri. Siamo solo all’inizio dell’esplorazione.
Enrico Camanni