Oggi le aree interne e montane italiane sono attraversate da decine e decine di esperienze di rigenerazione dal basso, di ripensamento delle economie locali e delle forme del welfare, di innovazione sociale a base culturale. E la grande novità sta nel fatto che oltre alle Alpi, in marcia da tempo, hanno iniziato a muoversi anche gli immensi Appennini, attraversati da gruppi di ragazzi capaci di uno sguardo nuovo, e dove si affacciano giovani amministratori decisi a spezzare il lungo filo della rassegnazione novecentesca. E questo muta radicalmente la portata di questo fermento in atto.

Ogni esperienza rappresenta un caso a sé, specifico, proprio perché sviluppata in stretta dialettica con la storia e le caratteristiche dei luoghi. Ma ci sono certo alcuni elementi ricorrenti. Il “prendere in mano la propria vita” è tema ricorrente nelle biografie individuali. Storie di giovani sovente con alti livelli di scolarizzazione e con precisi progetti imprenditoriali e di vita, che cercano sulle montagne quegli spazi di movimento consentiti dalla rarefazione, che oggi sempre meno si possono ritrovare nelle città.

Questa nuova centralità della montagna trova riscontro, a livello indiziario, nei modi in cui queste esperienze rigenerative ingaggiano il rapporto con lo spazio fisico e materico, con il mondo delle cose. Nelle esperienze più avanzate e interessanti – pensiamo a Ostana in Piemonte, a Dossena in Lombardia, a Gagliano Aterno in Abruzzo –, non ci si ferma solo ad osservare come oggetti immutabili le eredità ricevute in mano dal passato, secondo quella logica della patrimonializzazione che ha dominato il campo negli ultimi decenni, e che teorizza una via allo sviluppo dei luoghi essenzialmente come valorizzazione delle risorse del passato. Che poi nella realtà tende a coincidere con una valorizzazione prettamente turistica e stereotipata: insomma, quella retorica dei borghi che abbiamo attaccato in una pubblicazione recente – “Contro i borghi” – edita dalla casa editrice Donzelli.

Sempre di più si incomincia invece a guardare alla materialità delle cose senza le lenti della patrimonializzazione, a partire da un modo al contempo pragmatico e ideale: come ricostruire l’abitabilità di quel paese? Come “rimettere al lavoro” quel territorio? Sono domande che non solo sono centrali, ma che cambiano profondamente il rapporto tra i soggetti e lo spazio fisico. Le eredità non sono più qualcosa di fisso, congelato dalla storia e nella storia, ma vengono rimesse in movimento, in circolo. Riprendono vita. La domanda non è più come valorizzare quel gruppo di case, quei campi, quel paese, ma come renderli nuovamente abitabili e produttivi, interrogandosi a cosa possono servire per il futuro delle vite individuali e collettive, ovviamente dentro una prospettiva di sostenibilità ed equità e di rispetto per la storia.

Rimettere al lavoro” le cose trasforma radicalmente i rapporti tra soggetti e mondo materiale e fisico degli oggetti. Le cose non vengono più guardate da distanza per la loro immagine culturale e per la loro storia, ma per il loro potenziale di costruzione della vita e dell’abitabilità. E per far questo devono essere toccate, manipolate, devono essere attraversate con i corpi, al fine di rendere nuovamente produttivo quel campo, o abitabile quella casa o quella struttura collettiva. Ed è potente, emozionante, questo poter nuovamente rimettere le mani nelle cose, spostare materialmente delle pietre, dopo decenni di asettica modernità dove avevamo delegato tutto questo a enti, normative, istituzioni, procedure.

Ma per fare tutto questo serve allora una nuova attitudine, che è più simile a quella del bricoleur che a quella del tradizionale progettista. Perché non basta modificare, trasformare, riadattare, riattivare il singolo oggetto. La portata rivoluzionaria sta nel ricombinare l’insieme delle cose, pensarne i potenziali effetti alla scala complessiva, costruire un nuovo ordine dei “materiali” del territorio che è al contempo costruzione di un nuovo patto tra ambiente e comunità. Che cosa ne può nascere da quel paese se lo pensiamo come Comunità energetica? Che cosa significa riattivare l’intera alta regione dei pascoli collettivi in termini al contempo di economie ed ecologie, di corretta gestione del territorio?

Per lungo tempo abbiamo guardato al mondo degli oggetti con distacco fisico, assolutizzandone la mera immagine estetica e culturale. Creando feticci. E’ il modo che attraversa tanti enti che si occupano di tutela del paesaggio, che ti vietano di mettere un pannello solare su un piccolo caseificio perché “rovina il paesaggio”, ma talvolta anche di una parte della cultura ambientalista. Riguardare al mondo delle cose attraverso la lente dell’abitabilità e del lavoro ci permette di cogliere opportunità che avevamo completamente dimenticato, e di ridisegnare la scala delle priorità e dei valori.

Siamo solo all’inizio, e ci aspetta un immane lavoro. Ma è anche questa possibilità di rimettere mano al mondo delle cose fisiche e materiali, con mani, corpo, senso del tatto, lavoro, che oggi rende la montagna tanto attraente agli occhi di masse crescenti di giovani. Una montagna, dopo tanto tempo, finalmente ritornata contemporanea, in cui il tempo della vita ha ricominciato a scorrere.

Antonio De Rossi e Laura Mascino