Paolo Cognetti, La felicità del lupo, Einaudi 2021, 152 pp, 18 euro
Anche oltre i duemila metri, ai laghi di Palasinaz sopra casa sua, la neve è quasi assente: Paolo mi dice che tutto sommato va bene per chi ama camminare, come lui, che nei giorni passati ha ripercorso a lungo i sentieri della sua valle. Ma condividiamo la forte preoccupazione per gli effetti ormai indiscutibili del cambiamento climatico: la prossima estate potrebbe essere di forte siccità.
Dopo aver parlato del suo nuovo rifugio a Fontane, ormai completato (ma ancora non aperto ufficialmente, per le difficoltà legate alla pandemia e alle norme sull’ospitalità), iniziamo proprio dal Covid e dall’origine del romanzo appena pubblicato con Einaudi, “La felicità del lupo”.
Nel 2020 abbiamo fatto un’intervista durante il primo lockdown. Tu eri a Milano, dove avevi scelto di restare, vicino ai tuoi famigliari, piuttosto che ritirarti nella tua baita di Estoul. Il tuo nuovo libro ha cominciato a prendere forma in quel periodo: quanto ha influito la pandemia sulla sua stesura e sul tuo stato d’animo come scrittore?
La pandemia mi ha costretto a stare a casa, a lavorare. La mia vita negli ultimi anni era stata presa da tanti impegni diversi, da eventi e iniziative che mi avevano in qualche modo distratto e che rendevano difficile ritrovare quella concentrazione essenziale per la scrittura. E poi questo libro ha preso un po’ dello spirito dei tempi: mi sembra che ci sia dentro quel desiderio di leggerezza, di libertà, di aria aperta, di montagna che sicuramente è dovuto al momento particolare in cui è nato. Quasi senza trama, è un romanzo fatto di scene, di meditazioni, di momenti di vita in montagna, scritte da una persona che in quei giorni era chiusa in un appartamento a Milano e queste cose le ricordava, le immaginava, e le sognava anche. Il motore centrale di questo libro è proprio il desiderio di montagna, e di tutto ciò che essa rappresenta, delle sensazioni che mi ha sempre offerto e che allora mi erano negate.
I personaggi del romanzo sono anch’essi frutto della pandemia?
No, quelli li avevo in mente da tempo. La figura della ragazza, Silvia, che decide di lavorare in un rifugio di alta montagna senza esserci mai stata prima, è legata ad alcune persone così che avevo incontrato, a un tipo di esperienza in cui mi ero imbattuto diverse volte. Volevo qui raccontare di una giovane donna, riprendere un personaggio femminile nella mia scrittura, dopo alcuni anni e dopo che ne “Le otto montagne” mi ero focalizzato sulle amicizie maschili. Poi il personaggio di Babette (che nel libro ha un ristorantino per sciatori e gattisti) è costruito su di una mia cara amica, è praticamente lei, una donna che aveva scelto di vivere in montagna in altri tempi, quelli del riflusso dai movimenti sociali. Fausto naturalmente è il mio alter ego, uno scrittore che però ha lasciato la scrittura e si mette a lavorare come cuoco (lavoro che anche io avevo fatto ai primi tempi di vita a Estoul), mentre Santorso rappresenta il montanaro per nascita, nelle sue diverse sfaccettature. Silvia, Fausto e Babette sono tre montanari per scelta, colti in tre diverse fasi della vita (i venti, i quaranta e i cinquant’anni) che per me sono anche tre fasi di un rapporto d’amore con la montagna: appena nato per la prima, aperto al futuro ma anche legato al ritorno quello del secondo, e che si va chiudendo per la terza. Santorso invece è quello che è nato lì e lì è sempre rimasto: il larice attaccato alla sua montagna, che guarda passare chi arriva e chi se ne va via.
Dunque tre dei quattro personaggi principali del libro possiamo definirli come dei “nuovi montanari”. Tutti cercano qualcosa in montagna, a partire da vite difficili o insoddisfacenti che hanno sperimentato nelle città di pianura. Tutti vedono la montagna come una alterità radicale rispetto al mondo metropolitano. Alcuni di loro poi però tornano indietro, o vanno altrove. Tu come vedi oggi il mondo variegato di chi aspira a trasferirsi in montagna o lo ha già fatto? Dove sta andando questo movimento, specie dopo la pandemia?
Il mio angolo visuale è legato anzitutto alla valle dove abito. In questi ultimi due anni ho visto arrivare diversi nuovi abitanti: ci sono nel mio piccolo comune 10 bambini nuovi a scuola, e alcune giovani famiglie che si sono stabilite, che cercano di capire come possono lavorare e inserirsi qui, pur mantenendo ancora forti legami con le città da cui provengono. In queste coppie che ho conosciuto direttamente, spesso uno dei due mantiene un lavoro “tradizionale” a Milano o a Torino, per garantire un minimo di stabilità economica con uno stipendio, mentre l’altro prova maggiormente ad avviare una attività qui, a cercare una strada praticabile. Vedo un grande desiderio di capire come starci in montagna, che ricette trovare per restare, per trovarsi un proprio spazio. In questi anni, per la costruzione del mio rifugio a Estoul, ho avuto bisogno di muratori, falegnami, idraulici, elettricisti, carpentieri: in valli come questa, dove comunque ci sono persone che vivono stabilmente e qualche forma di turismo, queste professionalità sono molto ricercate, e scarseggiano. Qui si possono trovare possibilità di lavoro, mi sembra, in misura decisamente maggiore rispetto all’apertura di un’ennesima attività ricettiva o comunque rivolta ai turisti, e anche rispetto all’agricoltura, che qua mi pare offra poche occasioni. Se pensiamo poi alle ristrutturazioni di immobili, in rapporto oggi agli incentivi dell’ecobonus, ci sono tante possibilità non solo per i muratori ma anche per gli ingegneri, i progettisti, gli architetti, i professionisti delle energie rinnovabili.
Poi durante lo scorso anno ho assistito al tipo di impatto, anche lavorativo, che ha avuto una iniziativa come le riprese del film tratto da “Le otto montagne”, sostenuto dalla giovane film commission della Valle d’Aosta: da maggio a dicembre sono stati qui, a fasi alterne, a girare le riprese, con una troupe di 60-70 persone, venute da Roma. Hanno coinvolto molto gli abitanti di qua, come comparse, autisti, operai per il set, e poi le due strutture ricettive del paese che si sono riempite. Vedo un nuovo interesse per la montagna anche da parte di chi scrive per il cinema, e di conseguenza un impatto diversificato del cinema su questi territori.
Ritornando ai protagonisti del tuo romanzo, uno solo di loro è un montanaro per nascita: Santorso. Un personaggio che mi sembra segnato da un destino difficile, quasi ostile, come era stato anche per Bruno, l’altro montanaro de “Le otto montagne”. Come vedi tu il destino di questi “restanti”, per la tua esperienza diretta?
Domanda difficile. Adesso, con la questione del vaccino e dei no vax, vedo una spaccatura crescente qua in montagna. Sembra proprio che si sia aperta una voragine tra culture e mentalità di provenienza delle persone: vedo tantissima gente diffidente, una certa rabbia che monta. Non è un bel momento per il dialogo tra cittadini e montanari. Quelli come Santorso, non più giovani e che vivono in montagna non da cittadini, mi paiono sempre più isolati nel proprio mondo, fanno sempre maggior fatica a capire che cosa succede. E quindi cresce la loro marginalizzazione.
Parlando di isolamento, mi viene naturale chiederti anche della solitudine. Mi sembra che i personaggi del tuo nuovo libro, per un verso o per l’altro, siano caratterizzati da una forte dimensione di solitudine; anche quando incontrano gli altri, anche nella relazione d’amore. La tua montagna è una montagna dei solitari?
Penso che chi è attratto dalla montagna ha un suo rapporto con la solitudine, ci sta abbastanza bene da solo. I miei personaggi non sono però soggetti che fuggono gli altri: hanno rapporti umani, hanno rari incontri ma intensi. Sono anche soggetti un po’ eccentrici, fuori dalla media, a volte dai modi bruschi, con slanci di calore ma con le loro spine. Persone orgogliose, forti, che hanno fatto della solitudine la propria forza interiore. Forse la differenza tra di loro è che per esempio il personaggio di Babette viene dai movimenti collettivi degli anni Settanta-Ottanta, da quella dimensione sociale sfociata nel riflusso politico, mentre Silvia, la ragazza, vive una situazione di maggiore individualismo: viene dalle periferie, dove si vive molta la solitudine metropolitana, anche di tipo generazionale.
Questa riflessione sulla solitudine ci porta diretti a parlare del “fuorilegge”, il lupo che dà il titolo al romanzo, e che in un capitolo centrale del libro vediamo in procinto di rioccupare gli spazi montani lasciati liberi dagli uomini. Come scrivi: “Ora l’avversario andava via, lasciava campo libero… Forse le antiche regole andavano modificate…”. Un odore nuovo lo attirava: “l’odore della scoperta”. La felicità del lupo è dunque quella di chi riprende possesso di uno spazio aperto, abbandonato, che può essere in qualche misura reinventato, nelle sue stesse regole di base?
Sì, come ci siamo detti anche altre volte nei nostri dialoghi, questi luoghi in abbandono sono anche quelli più ricchi di potenzialità. Come il lupo nel romanzo capisce che forse da lì potrà non essere scacciato, lo stesso credo possa accadere anche per le persone, in certi luoghi come quelli poco turistici. Qui da me, a Estoul, spazio ce ne sarebbe ma purtroppo sono i prezzi delle case ad essere troppo alti ormai. Ma penso ad altri luoghi, come la Val Maira, ad esempio, dove le occasioni per insediarsi, e per reinventarsi, non mancano.
La felicità citata nel titolo ha a che fare anche con una ricerca personale, di uno spazio desiderato, in cui vivere, in cui stare bene; un luogo che ci assomigli. Io so vivere in città, ci sono nato e sono abituato a farlo, ma non è quello il luogo in cui davvero mi ritrovo, lo spazio che mi porta a dare il meglio di me. Invece la montagna mi rende diverso: anche chi mi viene a trovare mi dice che qui sono migliore, più contento, anche più simpatico! Questa è la mia idea di felicità.
A proposito di desideri, nelle conclusioni del libro, scrivi proprio che: “Fontana Fredda era fatta in ugual misura di realtà e desiderio.” Quanto conta per te il desiderio? Credi che la montagna sognata, desiderata, idealizzata ci impedisca alla fine di conoscere e vivere la montagna reale?
Sono stato molto colpito da quella frase di Barry Lopez, che ho citato in apertura del libro, quella sul paesaggio artico. Il fatto che un paesaggio come quello di alta montagna, così apparentemente ostico, rarefatto, dove non sembra che ci sia praticamente nulla, si popoli invece stranamente dei desideri delle persone, mi pare strano, e affascinante: che si carichi della nostalgia delle persone, dei loro ricordi. E in questi ultimi anni, questo fenomeno lo abbiamo visto esplodere: per esempio io lo vedo con i miei lettori, che mi scrivono della montagna della loro infanzia, dei loro genitori, della montagna che manca o a cui aspirano, specialmente in anni di pandemia come questi. Che la montagna desiderata sia lontana da quella vissuta, anche questo è un fatto. La montagna di chi ci vive in modo stabile è molto più complessa, è fatta anche di conflitti, di quotidianità difficile: a me sembra ancora una volta di trovarmi in mezzo, tra visioni e mondi diversi, e tipi diversi di persone.
A proposito del rapporto con la montagna e i suoi maestri, tu hai sempre dichiarato di vedere in Mario Rigoni Stern un riferimento per te fondamentale, sia dal punto di vista dei valori, sia rispetto alla scrittura, allo stile stesso. Nelle ultimissime righe del tuo romanzo i protagonisti dormono, e sognano, ciascuno alle prese col proprio desiderio. “E questi sogni facevano parte del paesaggio di Fontana Fredda tanto quanto i boschi devastati dal vento, le cataste di tronchi invendute, i torrenti in secca dell’autunno, i caprioli che uscivano a pascolare sulla pista di sci non ancora innevata…”. In questa descrizione, come in altre nel libro, ritrovo un’eco forte proprio del modo di scrivere, e soprattutto di descrivere, di Rigoni Stern. Quanto ha influito sulla tua scrittura, sulla tua rappresentazione della montagna?
Sicuramente ha influito e influisce su qualcosa che ora sto cercando di fare, qualcosa per me di nuovo, quasi un’esplorazione: fare in modo che la presenza della natura e della montagna nelle mie storie sia sempre di più un tutt’uno con la presenza umana. Mi piacerebbe infatti portare gli alberi, i torrenti, il cielo, gli animali del bosco ad essere essi stessi letteratura, a diventare protagonisti di quello che scrivo, al pari degli uomini e delle loro vicende. Se considero Rigoni Stern, mi rendo conto della enorme distanza che c’é tra di noi, a partire dal fatto che lui era un montanaro, nato e vissuto sempre in Altipiano, che conosceva profondamente il suo mondo, e che ne custodiva la memoria rispetto alle tante storie vissute in prima persona o ascoltate dai diretti protagonisti. Mentre io, nato in città, penso di venire maggiormente dalla montagna raccontata, desiderata, per certi versi anche idealizzata e infine scelta. In effetti, credo di poter dire che Rigoni Stern veniva dalla montagna ed è giunto alla letteratura, mentre io ho fatto il percorso inverso.
Andrea Membretti