Irriducibilmente altra rispetto agli immaginari romantici che la volevano isolata, remota, separata fisicamente dal mondo moderno delle città e del mutamento sociale, la montagna alpina ha costruito negli ultimi sette secoli una civilizzazione complessa intorno all’asse che possiamo definire della “giusta distanza”.
Un sistema di proporzioni, di spazi vuoti e pieni, di giustapposizioni che ritroviamo tanto sulla scala più ridotta che caratterizza il costruito e le modalità insediative tradizionali delle diverse forme dell’abitare alpino (dalla struttura dei borghi tipici delle Alpi latine, alle unità di vita e lavoro sparse sul territorio, esemplificati dai masi nelle Alpi germaniche), quanto sulla scala più ampia che storicamente ha inquadrato le relazioni socio-spaziali intercorrenti fra montagna e città (in termini di scambi economici e culturali, di spostamenti circolari di persone, fino al rispecchiarsi reciproco, l’una nella rappresentazione dell’altra, nelle epoche più recenti della nascita del turismo).
Negli anni del secondo dopoguerra – perlomeno nei territori che hanno conosciuto il turismo di massa, la patrimonializzazione del paesaggio culturale e dei suoi manufatti e la sudditanza culturale ed economica alla città e ai suoi stili di vita – la distanza è andata diminuendo drasticamente, sino a collassare in tanti casi. Quella tra mondo montano e mondo urbano, innanzitutto, a causa di un avvicinarsi culturale (e spesso fisico, grazie ad una infrastrutturazione dei territori funzionale in primis al loro sfruttamento da parte della città, in termini anzitutto di velocità degli spostamenti) tra sistemi sino ad allora in relazione dialettica, laddove è la montagna del tracollo demografico e della profonda crisi dei valori tradizionali ad aver accettato di coincidere di fatto con l’orizzonte spaziale e simbolico dei poli urbani. E persino la distanza interna ai sistemi insediativi storici, come è evidente nei villaggi Walser, in cui lo spazio (di coltivazione e uso agricolo ma anche di “rispetto” comunitario) volutamente lasciato tra singoli edifici e tra i loro piccoli raggruppamenti, è stato invaso dalle seconde case, stravolgendo una geometria sociale, prima ancora che fisica, frutto di sedimentati rapporti tra uomo, società e ambiente.
Il movimento dei “nuovi montanari”, negli ultimi vent’anni, ha rappresentato la principale novità rispetto ad una ritematizzazione della “giusta distanza” in termini contemporanei nel contesto alpino. I giovani (e non solo), spesso altamente qualificati e fortemente motivati, che hanno lasciato le aree metropolitane per andare a vivere e a lavorare in montagna, esprimono una tensione concreta verso nuove modalità di riabitare le Alpi (quelle meno turistizzate, più interne, ancorché non tagliate fuori dalle relazioni col mondo di pianura): modalità centrate sulla ricerca di un diverso equilibrio (spaziale e culturale) tra mondi non più così distanti ma che richiedono appunto nuove forme di interazione, nuovi spazi “tra” (in-between), che garantiscano il reciproco riconoscimento tra le parti. Possiamo affermare che, prima della rivoluzione spazialista innescata dalla pandemia del Covid-19, proprio in queste pratiche e in queste concezioni del territorio si manifesta l’idea di un necessario (ri)distanziamento, fisico e sociale, di una forma di dispersione abitativa e lavorativa, ancorché dentro le dinamiche e i flussi della globalizzazione.
I “nuovi montanari”, per quanto fenomeno quantitativamente modesto, hanno contribuito dunque in modo sostanziale a reinventare in una certa misura le due polarità tra cui la distanza (oggi spesso più simbolica che fisica) si dispiega: ovvero a vederle come parte di un tutto (che possiamo chiamare tecnicamente il sistema metro-montano) in cui lo spazio che separa (città e montagna, così come un insediamento alpino dall’altro) è generatore di senso, è categoria della conoscenza, o più semplicemente rappresenta il quotidiano elemento che consente la relazione tra il qui e l’altrove. In questo distanziamento, non ancora imposto per legge dalle misure emergenziali anti pandemiche, la rarefazione socio-spaziale che caratterizza oggi tanta parte delle terre alte può allora tramutarsi in risorsa per l’innovazione, in occasione per sperimentare quotidianamente “un più largo respiro” esistenziale e di vita quotidiana.
La pandemia del Covid-19, con il correlato di norme per il distanziamento sociale e l’immobilità residenziale, sembra aver definito un quadro nuovo e nuove potenzialità rispetto a questo fenomeno, in particolare per quanto riguarda le aree montane. Improvvisamente ci siamo tutti trovati a ripensare radicalmente il nostro essere nel mondo, o meglio il nostro stare: sono state messe in radicale discussione due spinte parallele, quella alla mobilità e quella alla prossimità (quelle che il sociologo John Urry ha definito come compulsion to mobility e compulsion to proximity), su cui sino a ieri si è basato il sistema socio-spaziale contemporaneo.
Di fronte alla prospettiva di trascorrere a casa, o comunque in porzioni di territorio limitate, periodi significativi della nostra esistenza (anche periodicamente), le grandi città non sembrano più essere i luoghi più desiderabili per vivere: perlomeno non in pianta stabile. I grandi numeri di persone, la prossimità forzosa con una folla anonima potenzialmente fonte di rischio, gli attraversamenti del territorio regolati da norme iper securitarie, la mancanza di spazi aperti, di natura fuori della porta di casa, che possa compensare la minore possibilità di viaggiare: sono alcuni dei fattori che potrebbero spingere una parte della popolazione, perlomeno quella con le risorse culturali ed economiche necessarie, a cercare la “giusta distanza”, trasferendosi (anche in modo intermittente) verso aree meno densamente popolate, come quelle interne e montane. Questo naturalmente a fronte della possibilità di connessione a Internet (che consentano lo smartworking), di una infrastrutturazione di base efficiente (dal negozio di alimentari in paese alla strada di collegamento con la città tenuta in buone condizioni, ai servizi di base decentrati, quali quelli per l’infanzia o per la salute) e naturalmente di possibilità lavorative concrete (sia di lavoro a distanza, sia in loco, con la riscoperta di economie a Km zero, di filiere corte).
Il movimento dei “nuovi montanari” sembra allora un possibile apripista rispetto a nuove tendenze sociali (nelle quali immaginari e necessità tendono a mescolarsi in modi inediti), la cui portata futura è tuttavia ancora tutta da definire. Si apre forse una nuova stagione nelle Alpi per inventare nuove politiche dei luoghi, per immaginare e per sostenere pratiche di ri-territorializzazione, per favorire non l’isolamento dal mondo ma una diversa forma di (inter)connessione, su scala diversa, tra locale e globale, tra cittá e montagna? Una stagione in cui il distanziamento sociale venga trasformato da obbligo a scelta, e con esso un passaggio a nuove forma di stanzialità, di radicamento locale (una sorta di compulsion to locality) in contrasto con la precedente compulsione alla iper mobilità, al nomadismo post moderno.
Come racconta l’antropologa Maria Molinari (2020) nel volume che ha recentemente pubblicato sul piccolo borgo appenninico di Berceto, ci sono dei vantaggi nel vivere “un po’ in disparte”, nel “guardare al mondo lateralmente”: specialmente se è il mondo post Covid-19. Uno sguardo, quello dei neo abitanti e dei “ritornanti” nelle terre alte, che si basa sulla lentezza, sulle reti corte di vicinato, sulla prossimità data dal condividere la cura di un territorio vissuto come bene comune. Ma, nel contempo, uno sguardo che mette in relazione il qui e l’altrove, che non si accontenta di rivolgersi solo al proprio cortile, cercando piuttosto di leggere le trasformazioni del mondo con le lenti della dimensione locale, in un’ottica trans locale.
Nei luoghi della “restanza” (come la chiama Vito Teti) e del ritorno (o del neo popolamento) si apre uno scenario inedito: quello della ricerca, per forza e per scelta, di una “giusta distanza” definita da comunità di destino, che intendono reagire alla delocalizzazione, alla periferizzazione imposta da centri economico-finanziari e dalle grandi aree metropolitane, all’insicurezza fisica e sociale prodotta dagli spazi della concentrazione, della densità: quei fenomeni di accentramento ad alto impatto ambientale ed umano che si sono affermati con prepotenza sul tessuto dell’abitare diffuso, quello che era sino a pochi decenni fa la base dell’antropizzazione, del lavoro e del vivere in un paese di origine rurale come l’Italia.
Una “giusta distanza” che può essere antidoto alla fuga disorganizzata e individuale di fronte al virus, all’affermazione di un immaginario centripeto e distopico, laddove riabitare i luoghi marginalizzati (come ci racconta il progetto collettivo dell’associazione “Riabitare l’Italia”) è il frutto di una inversione dello sguardo, di un mutamento radicale di prospettiva, che forse proprio la pandemia va sollecitando.
Andrea Membretti