Città è montagna sono state per anni contrapposte da una visione che mostrava le aree interne come la parte svantaggiata, un territorio senza possibilità di crescita economica, con scarsi sbocchi lavorativi e occupazionali. Questa visione ha generato un vero e proprio esodo, che dal secondo dopoguerra ha portato oltre 900 mila persone a lasciare la propria residenza per spostarsi in aree urbane (https://bit.ly/3i4TOWB)
Negli ultimi decenni però una maggiore consapevolezza del patrimonio naturale, paesaggistico e storico-culturale ha dato nuova linfa alle relazioni lavorative tra città e montagna, andando oltre ai rapporti per l’acquisto dei prodotti locali o per la frequentazione turistica. Non sono più rari i casi di persone che dai grandi centri urbani decidono di spostarsi a vivere e lavorare in montagna. Secondo Joselle Dagnes (https://bit.ly/3f33L5g) quello che sta emergendo è un nuovo bisogno di montagna, legato ad un desiderio di cambiare il proprio progetto di vita e non per forza per trovare risposta ad una situazione difficile o problematica. In alcuni casi i nuovi montanari decidono di intraprendere un percorso imprenditoriale legato al territorio, in altri casi si spostano semplicemente perché esausti dal caos della vita urbana, continuando a fare il loro lavoro da remoto.
Nonostante il problema della connessione internet lasci ancora le aree montane in secondo piano – secondo UNCEM a ottobre 2019 erano 1200 Comuni senza adeguate linee di telefonia mobile (https://bit.ly/3x1ByBW) – il processo di digitalizzazione ha permesso a molti territori di farsi conoscere anche oltre i confini della propria vallata. In questo modo le amministrazioni sono facilitate a promuovere le risorse del territorio, i produttori locali possono attivare nuovi canali di vendita, e chi può lavorare semplicemente grazie ad un computer sta prendendo in considerazione di tornare a vivere tra i monti.
Per capire meglio come stanno cambiando i rapporti “lavorativi” tra città e montagna abbiamo chiesto a Elena Di Bella, Dirigente Sviluppo Rurale e Montano della Città Metropolitana di Torino, di raccontarci l’esperienza dello sportello “Vivere e lavorare in montagna”.
Il progetto è stato riproposto nella prima metá del 2020 come evoluzione della prima sperimentazione “Vado a vivere in montagna” attiva tra il 2017 e 2019 e lanciato da Socialfare, e si rivolge a tutti i soggetti (singoli, famiglie, gruppi informali, associazioni, ecc.) interessati a trasferirsi nelle aree montane per motivi di vita e/o di lavoro. L’obiettivo è quello di sviluppare un proprio progetto di vita e di lavoro in montagna, a partire eventualmente dalla creazione di attività micro-imprenditoriali. A supporto dello sportello oltre alla Cittá Metropolitana di Torino (Dipartimento Sviluppo Economico – Direzione Sviluppo Rurale e Montano e Direzione Attività Produttive con il Servizio MIP-Mettersi In Proprio), ci sono il centro per l’innovazione social “SocialFare”, e il Dipartimento Culture, Politica e Società dell’Università di Torino.
Elena ci racconta che ad oggi, lo sportello “Vivere e lavorare in montagna” ha raccolto circa 70 richieste di persone o nuclei familiari con un sogno nel cassetto, desiderose di mettersi in gioco: cambiare casa, crearsi un lavoro, trasferirsi lontano dalla città. La maggior parte sono giovani coppie che cercano una casa-bottega e che vogliono avviare la loro impresa. L’identikit più diffuso? Lei insegnante, lui pronto ad aprire un’azienda agricola. Giovani sì, ma non giovanissimi: nessuna richiesta da neolaureati o studenti, piuttosto dalla fascia tra i 35 e 40 anni, ovvero quelli che hanno già esperienza di come funziona il mondo del lavoro e hanno messo da parte qualche (scarno) risparmio. In generale non conoscono il territorio ma sono disponibili a investire tempo, energie e risorse; c’è da dire, però, che per ora solo circa il 15% ci è riuscito.
La pandemia ci ha avvicinato ai territori prossimi e restando a casa, c’è stato tempo per pensare dando maggiore spazio ai sogni: più tempo, più desideri, più ricerche online. Ma chi sceglie la montagna è perché la conosce, ha i suoi punti di riferimento (amici o conoscenti) e magari una proprietà acquistata in tempi non sospetti.
Chi ha un reddito alto o una seconda casa in valle, non passa dallo sportello: se si hanno risorse proprie e si vuole cambiare vita ci si trasferisce in autonomia. Lo dimostra il fatto che nell’ultimo anno molti comuni delle Valli di Lanzo, Susa, Chisone e Pellice, hanno acquisito nuovi abitanti. Al contrario, chi si rivolge allo sportello “Vivere e lavorare in montagna” sono persone che hanno necessità di lavorare: pochi smart worker, ma imprenditori o liberi professionisti (dal fisioterapista al falegname). Vogliono staccarsi completamente dalla città, pronti anche ad allontanarsi dai servizi e non si pongono il problema dei trasporti (escludendo chi ha bambini che necessita di stare vicino alle scuole), ma hanno paura di sentirsi isolati e lontani da attività sociali e culturali.

A dimostrazione di come anche le amministrazioni locali siano interessate ad attirare nuovi montanari, il GAL Escartons e Valli Valdesi ha aperto uno sportello ad hoc per accogliere chi è interessato ad andare a vivere in Val Chisone, Germanasca e Pellice. Lo sportello organizza eventi di “inserimento”, durante i quali i nuovi abitanti possono incontrare la comunità e sfruttare queste occasioni per costruire una rete di riferimento. Chi vuole aprire un’attività commerciale potrà dialogare con le associazioni di settore, chi ha figli potrà incontrare referenti delle scuole; e poi le amministrazioni pubbliche e i capi carismatici di territorio.
Quel che è certo, infatti, è che chi si trasferisce per vivere in montagna ci vuole anche lavorare, eccetto (per ora) rari casi di persone in smartworking ad libitum, che hanno scelto di cambiare anche regione e prendere casa nelle valli piemontesi. La tendenza degli ultimi anni è che molti scelgono di spostare le proprie attività in montagna: non più solo aziende agricole e attività turistiche, ma anche artigiani, operatori del benessere, sport outdoor e attività collaterali al turismo, come quelle culturali, artistiche ed educative. Perché “in quota” si lavora meglio. In molti scelgono di vivere a metà strada tra città e montagna. Ancora in pochi spostano abitazione e bottega (un caso diffuso è quello del naturopata), ma qualcosa sta cambiando.
Siamo di fronte ad una maggiore connessione urbano/rurale, l’accoglienza dei sindaci si è ampliata e sono sempre più diffusi i progetti di sviluppo di comunità che coinvolgono vecchi e nuovi abitanti. Un’occasione per creare nuovi servizi capillari: si sta costruendo lentamente, ma collettivamente, una montagna che non ti aspetti.
Jacopo Scutellari e Giulia Cerrato

www.natworking.eu