Federica Corrado (a cura di), Urbano montano. Verso nuove configurazioni e progetti di territorio, Franco Angeli 2021, 226 pp, 33 euro

Fin verso la fine del secolo scorso per le grandi città il valore delle montagne sembrava ridursi a quello rispondente ai loro interessi economici, come lo sfruttamento delle risorse idriche, energetiche, turistiche e della forza lavoro, mentre pochi si curavano dello spopolamento, degli abbandoni di terreni e di case, del degrado del suo patrimonio ambientale e culturale, mentre i media offrivano un’immagine di una montagna ridotta a spazio della ricreazione, degli sport e delle seconde case.
Come e perché negli ultimi decenni questa visione ha cominciato a cambiare ce lo dice il “Manifesto per una nuova centralità della montagna” uscito dall’omonimo convegno tenutosi a Camaldoli nel novembre 2019:
“Nelle nostre montagne ci sono valori, risorse e cambiamenti positivi in atto che meritano di esser messi al centro dell’attenzione, delle pratiche e delle politiche, in netta antitesi con un’idea di montagna come mondo statico, arretrato, poco produttivo (…). Le terre alte si distinguono per la straordinaria ricchezza e varietà del patrimonio ambientale, paesaggistico, architettonico e storico-culturale, per la presenza di infrastrutture (percorsi, versanti terrazzati e altri manufatti rurali) disponibili al riuso, per la rete policentrica degli insediamenti e dei sistemi socio-produttivi modellata sulla varietà del rilievo e delle sue condizioni climatiche, per le risorse potenziali idriche, energetiche, agro-pastorali, forestali e turistiche, per una biodiversità agricola alimentare e culturale”.
E’ una visione che trova conferma nel fenomeno dei “nuovi montanari”, intesi sia come i giovani che lasciano la città per sperimentare nuovi modi di abitare e di produrre, sia come i nativi che, invece di migrare in città come i loro padri e i loro nonni, provano a mettere a frutto le risorse locali. Questo anche perché i grandi agglomerati urbani sono sempre meno attrattivi: inquinamento atmosferico, disoccupazione, precariato, insicurezza, individualismo, consumismo generano una “domanda di montagna” vista come un ambiente “verde”, che promette libertà, sobrietà, spirito comunitario e così via. E’ certamente una visione idealizzata, ma con un fondo di vero per quanto riguarda ciò che la montagna marginalizzata potrebbe diventare con una politica che le assicurasse normali condizioni di vita e di lavoro ai suoi abitanti .
Come mette bene in evidenza Federica Corrado nell’introduzione, questa nuova visione della montagna non è antitetica a quella della città. Al contrario essa riconosce i valori e i vantaggi della vita urbana e vede nell‘ambiente naturale, culturale e sociale della montagna un’occasione per rigenerarla attraverso processi di fusione, ibridazione e di dialogo urbano-montano, che tendono a sfumare i confini, anche geografici, tra queste due entità. Se la città non di identifica più necessariamente come una grande concentrazione popolazione, di edifici, di funzioni esclusive, anche la montagna può essere città, così  come – ce lo ricorda  il saggio di Lidia De Candia –  lo è già stata in passato.
Va notato che le nuove opportunità di interagire con il mondo, offerte alla montagna dalle tecnologie digitali, non riducono l’importanza delle sue tradizionali relazioni con le città più vicine, anzi l’arricchiscono di nuovi contenuti. In Europa sono numerose le metropoli e le città che si trovano a contatto con uno spazio montano. In Italia abbiamo dodici Città metropolitane che comprendono aree montane nei loro confini amministrativi e un’altra novantina di città importanti, tra capoluoghi di provincia e altri centri con più di 50.000 abitanti, che distano meno di 15 Km dal bordo di un’area montana.
In queste zone di prossimità e di transizione urbano-montana si realizzano le figure intermedie illustrate nei saggi di Roberto Mascarucci, Roberto Sega e nel dialogo con Arturo Lanzani. Sono particolarmente interessanti i casi in cui città importanti – come ad esempio in Italia L’Aquila, Trento e una decina di altre – si trovano all’interno di un’area montana con cui hanno da sempre un rapporto simbiotico dove non solo il territorio circostante dipende dalla città, ma anche la città vive di esso per quanto riguarda la sua cultura, le sue funzioni e i suoi interessi. Diverso è invece il rapporto con la montagna delle città poste lungo il bordo dei rilievi, in quanto, in seguito all’impoverimento demografico ed economico dei loro entroterra montani, i loro interessi si sono sempre più orientati verso il pedemonte più ricco e popolato. Questa dissimmetria potrebbe ridursi notevolmente se queste città operassero da mediatrici tra la “nuova centralità” della montagna e le metropoli dell’avampaese, nell’ambito di una più vasta organizzazione metro-montana come quella delineata nel saggio di Roberto Sega e nell’esperienza progettuale presentata nel saggio di Corrado, Davico, Durbiano e Bussone. Si potrebbero formare sottosistemi territoriali urbano-montani ispirati al modello simbiotico delle città entro-montane, che prefigura sotto vari aspetti quello della bioregione urbana, illustrato nel saggio di Monica Bolognesi e Alberto Magnaghi.
Un contesto geografico-istituzionale particolarmente favorevole a queste sperimentazioni è offerto da quelle Città metropolitane, come ad esempio Torino, Genova, Firenze, Reggio Calabria, il cui territorio è in buona parte montano. Una ricerca sul caso di Torino (L’interscambio città-montagna, Franco Angeli, 2017) ha misurato l’interscambio di beni e servizi tra la montagna e la città, identificata con un’area pedemontana urbanizzata comprendente il capoluogo. Gli scambi principali riguardano, in ordine decrescente d’importanza economica: il lavoro pendolare, i beni e i servizi che la città fornisce alle famiglie e alle imprese della montagna, i redditi che la montagna ricava dal turismo e dalla villeggiatura di chi vive in città, i prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento montano commercializzati nella città, l’acqua utilizzata dalla città.
L’interscambio rivela una netta dipendenza della città dalla montagna per quanto riguarda i servizi eco sistemici (acqua, condizioni naturali delle produzioni agro-pastorali, condizioni ambientali della fruizione turistica e ricreativa), mentre la montagna dipende dalla città soprattutto per il lavoro e per i beni e i   servizi necessari alle famiglie e alle imprese. Tra i due territori c’è dunque una complementarietà strutturale, ma mentre la dipendenza della città deriva soprattutto da fattori naturali, quella della montagna è dovuta in buona parte a situazioni di diseguaglianza su cui si può intervenire attraverso progettualità ad hoc, come quelle descritte da La Greca, Martinico, Nigrelli per il caso siciliano.
La situazione torinese è una situazione che si ripete con poche varianti là dove grossi agglomerati urbani interagiscono con la montagna vicina, come si evince dal saggio di Simona Tondelli tra Bologna e il “suo” Appennino. Un progetto di riequilibrio dovrebbe accrescere l’interdipendenza virtuosa, orientata a ribilanciare un sistema di scambi oggi svantaggioso per la montagna, ovvero a ridurre le dipendenze derivanti da situazioni di diseguaglianza, rafforzando al tempo stesso le complementarietà. Ad esempio la città dovrebbe pagare tariffe e compensazioni più adeguate per i servizi ecosistemici che utilizza, fornire supporto tecnico alle amministrazioni montane per piani di sviluppo locale e per l’accesso ai Fondi strutturali europei, realizzare un food planning che favorisca il mercato di prossimità delle produzioni agro alimentari. Queste ultime potrebbero in molti casi più che raddoppiare con il recupero di incolti e una miglior organizzazione dei canali di raccolta e distribuzione. La disoccupazione montana e quindi la pendolarità verso la città potrebbe ridursi sviluppando al suo interno filiere del legno, delle conserve alimentari e dei latticini. Da parte sua la montagna può contribuire alla sicurezza e al benessere della città riducendone i rischi idraulici con la manutenzione e la cura dei corsi d’acqua e dei versanti, con la cura del patrimonio naturale e culturale e del paesaggio, in quanto valori in sé e generatori di servizi eco sistemici, in particolare quelli detti culturali, fruiti dalla popolazione urbana. O ancora accompagnando e facilitando l’insediamento e l’integrazione locale di nuovi residenti e nuove imprese, favorendo azioni che valorizzano il capitale umano con una particolare attenzione proprio ai giovani, come emerge dal saggio di Maino, Cutello, Ravazzoli.
Ovviamente il riequilibrio non dipende solo dall’impegno di entrambe le parti. Le interdipendenze virtuose, così come la riduzione delle diseguaglianze richiedono interventi sostenuti da politiche di livello regionale, nazionale ed europeo, riguardanti la distribuzione geografica dei servizi, delle infrastrutture – soprattutto quelle digitali – al finanziamento delle opere pubbliche, alle politiche fiscali differenziate ecc. In particolare  occorrerebbero strumenti normativi (accordi programmatici, patti  ecc.) capaci di dare forma e continuità alle interdipendenze virtuose. Inoltre per dialogare e negoziare con la città i territori e le popolazioni montane dovrebbero essere rappresentate da attori collettivi istituzionali di livello intermedio, dotati di autonomia funzionale e progettuale come erano in passato le Comunità montane, cioè qualcosa di ben diverso – più razionale, più stabile e più strutturato – delle attuali Unioni di comuni.
Per concludere: qualunque progetto di territorio che si collochi nello spazio d’interazione tra montagna, città e metropoli deve anzitutto prender atto della trasformazione del significato di queste parole intervenuto a partire della fine del secolo scorso, sino a far breccia in un immaginario collettivo ancora molto legato alle concezioni del passato. Il compito – e il merito – di questo libro è quello di esplorare questa discontinuità semantica e cognitiva, mettendo in luce realtà, differenze e cambiamenti in atto a supporto di una progettualità consapevole.
Giuseppe Dematteis