Mauro Varotto, “Montagne di mezzo. Una nuova geografia”, Einaudi, Torino, 2020, 190 pp.

La montagna di mezzo è quella dimenticata e perdente nel confronto con la montagna degli sport invernali, della wilderness, dei parchi. Se ne parla poco, anche se in termini di superficie è i tre quarti della montagna italiana (che vuol dire il 12 % del territorio nazionale), con un baricentro che non è nelle Alpi ma nell’Appennino, altra montagna penalizzata nell’immaginario collettivo nazionale. Merita dunque di essere (ri)scoperta, di essere oggetto di una geografia che il sottotitolo del libro chiama nuova, perché oltre che a descrivere una realtà misconosciuta, ci parla dei suoi (e nostri) problemi, delle sue potenzialità e del suo futuro possibile.
Dopo una breve introduzione il libro si articola in dieci capitoli dedicati ai temi e ai concetti chiave: la misura della media montagna, i suoi discutibili confini, l’abbandono e gli stereotipi che ne impediscono la rinascita, l’illusione della wilderness, l’insegnamento dei paesaggi terrazzati, la produzione di cibo e la risorsa acqua, le basi di un nuovo patto col resto del mondo e di una nuova frequentazione, sull’esempio  del Club Alpino Italiano.
Leggendo il libro veniamo a sapere che le montagne “di mezzo” non si definiscono solo per quello che non sono o che non hanno. Un’identità forte ce l’hanno: sono “rilievi che conservano una speciale coniugazione dei caratteri della montuosità fisica con i talenti della montanità antropologica” (p. 168), una caratteristica quest’ultima derivante dai rapporti che i montanari hanno fin dal passato con gli ambienti naturali che li ospitano. Quest’idea  di una montagna abitata e “addomesticata” si contrappone all’immagine  della montagna vista come “natura”, di quella che la riduce a playground, oppure a “scrigno della tradizione” e ai borghi, secondo la nuova moda dell’abbandonologia.  In generale a tutte quelle immagini fuorvianti che tendono a chiuderla  entro confini netti sotto l’aspetto culturale, ignorando quanto essa sia  invece permeabile agli stili di vita urbana e aperta allo sfruttamento esterno. Varotto ci fa vedere la wilderness come outsideness: una forma di colonizzazione“, basata su una “ idealizzazione che va di pari passo con la sua feticizzazione turistica” (p. 75). Tra le conseguenze nefaste c’è quella di pensare i parchi e le aree protette come “riserve indiane per montanari imbrigliati da vincoli e norme imposte dall’alto” (p. 76), mente bisognerebbe invece affidare la conservazione del patrimonio ambientale alla tutela attiva degli abitanti. Più in generale si tratta di creare un’alleanza tra l’homo videns urbano e l’homo vivens montanaro, riconoscendolo come attore di tutto ciò che rende le montagne di mezzo vivibili, produttive e perciò anche attraenti. Una storia edificante di questa possibile alleanza è offerta dal Club Alpino Italiano (cap. 9), un sodalizio che, avendo le sue basi nelle grandi città, ha saputo aggiustare la sua prospettiva dalla conquista delle vette al far conoscere le montagne e, negli ultimi decenni, al prendersi cura di esse. Le relazioni città-montagna non devono essere antagonistiche. Da un patto tra urbanità e ruralità innovative può nascere una “nuova civilizzazione”, e in alcuni casi sta già nascendo, grazie alla nuova centralità della montagna di cui parla il Manifesto di Camaldoli.
Come si legge nel decimo capitolo (Tornare ad abitare), a questa trasformazione qualitativa può dare un rilevante contributo l’arrivo di nuovi abitanti  che mettono in crisi l’idea di un’identità legata alle origini. Essi rioccupano una “montagna senza abitanti” e non vanno confusi con quegli “abitanti senza montagna” che, non avendo nessun rapporto produttivo con l’ambiente montano “riducono l’abitare all’abitazione”  (p. 154).  Come dimostrano ad esempio le cooperative di comunità è possibile ibridare una cultura di origine urbana con quella dei residenti. Creare una nuova montanità che pratica la plurifunzionalità e la pluriattività dettata dalla varietà ambientale e l’autonomia solidale in nome di un “individualismo comunitario”  in cui già nel passato il bene comune  assumeva una valenza al tempo stesso economica, ecologica ed etica.
La nuova montanità deve anzitutto affrontare  il problema dell’inselvatichimento di una montagna che era stata pazientemente addomesticata. Le foreste devono tornare ad essere boschi, cioè curate, contenute, ovvero “riabitate”. Anche per quanto riguarda la fauna selvatica occorre evitare “la dittatura del selvatico sul domestico, ridando pari dignità alla pecora e al lupo” (82). La montagna riabitata è una montagna lavorata. La sua espressione paesaggistica più efficace è quella dei pendii terrazzati. Essi rivelano i tre volti della medietas montana: quello funzionale dell’equilibrio idrogeologico e della conservazione del suolo , quello sociale della gestione cooperativa e quello del valore estetico. Il libro affronta anche la questione del cibo prodotto in montagna, la cui quantità è necessariamente limitata e quindi è ben lontana dalla “montagna di cibo” di scarsa qualità prodotta industrialmente ed etichettata di montagna, anche quando è solo in minima parte della montagna. Al “colonialismo alimentare” si aggiunge quello dell’acqua e della neve, denunciato nel capitolo intitolato appunto “Acque di colonia”. L’utilizzo dell’acqua è piegato alle esigenze monouso (agricole, energetiche e industriali) di un avampaese del tutto indifferente alle esigenze dei montanari e addirittura alla loro sicurezza, come ha dimostrato la tragedia del Vajont. Anche lo sfruttamento dell’ “oro bianco”, con i grossi investimenti finanziari nella monocoltura dello sci di discesa, genera una dipendenza delle economie locali molto rischiosa, come stanno dimostrando i disastrosi effetti del cambiamento climatico e delle recenti chiusure anti-covid.
Il messaggio del libro è duplice: da un lato denuncia la marginalizzazione di cui continua a patire, anche sul piano culturale, la montagna di mezzo, dall’altro ci mostra la possibilità di rendere di nuovo viva, fruibile e produttiva questa grossa fetta del nostro territorio nazionale. Il libro stesso, grazie alla sua grande capacità comunicativa, è già un passo importante in questa direzione e di questo dobbiamo essere grati all’autore.
Giuseppe Dematteis