Spesso ci si chiede: ma quello è un rifugio o un albergo? La domanda è legittima perché la distinzione appare sempre più aleatoria, ma un modo per distinguerli esiste. Se le parole hanno un senso, anche il più solido rifugio di montagna dovrebbe essere un ricovero provvisorio. Un rifugio è sé stesso nella bufera, nel temporale, nella notte, nel bisogno. Per qualcuno nella catastrofe. Quando il 21 dicembre 2012 la profezia Maya paventò la fine del mondo, ci fu chi si preparò a fuggire in un rifugio di alta montagna.
Per converso, se il senso del rifugio è un bisogno che deriva dall’incertezza ambientale, la certezza ne nega la funzione. Per esempio, uno dei peggiori nemici del rifugio contemporaneo è la conoscenza anticipata delle condizioni del tempo. I gestori hanno dovuto arrendersi: ormai la gente sale solo se fa bello. Il nuovo dio si chiama “meteo”; maschile o femminile, a scelta. Ora sono le previsioni a guidare le partenze e i ritorni degli escursionisti e degli alpinisti, non più gli scongiuri e i segni del cielo. Nelle sere d’estate c’è ressa nei rifugi delle Alpi e degli Appennini, ma solo con l’alta pressione. Se fa brutto non sale più nessuno. Le previsioni meteorologiche e i capricci delle isobare riempiono i discorsi degli avventori e svuotano i dormitori dei rifugi. Il tutto esaurito diventa un tutto è perduto se c’è una perturbazione in arrivo e il rifugio resta vuoto quando piove o tira vento. È così poco moderna la montagna con il brutto tempo! Non c’è più chi tortura le carte da gioco aspettando una schiarita, chi accarezza le lacrime di pioggia dietro il vetro, chi intona una canzone per allietare gli animi e chi, semplicemente, accetta la montagna in qualsiasi condizione.

Dunque sono cambiate le forme del rifugio, con architetture talvolta avveniristiche e rivoluzionarie, ma prima di tutto sono cambiati i significati. Nel Novecento i riti romantici sono stati rimpiazzati da un cerimoniale sempre più laico e disincantato, e con il nuovo millennio è arrivato il rifugio cablato e programmato, prenotazione obbligatoria. Per contro il rifugio è diventato popolare e “democratico”. I rifugi che in passato erano esclusivo ricovero degli alpinisti, luoghi selettivi e iniziatici, sono oggi crocevia di incontro e confronto tra categorie molto diverse di avventori: turisti, escursionisti, trekker, biker, runner, climber. Il pubblico si è ampliato e differenziato: chi sale per dormire e salire più in alto, il giorno dopo; chi sale e basta, perché il rifugio è la sua “vetta”; chi cammina da rifugio a rifugio, usandolo come posto tappa.
Il moderno turismo alpino ha eletto il rifugio a casa del turista curioso e l’ha trasformato di conseguenza, dotandolo di ottime cucine e altri conforti. A volte troppi. I progettisti non lo concepiscono come un romantico spazio di attesa prima della scalata, ma come un luogo di passaggio, permanenza e scambio, utilizzando materiali, arredi e soluzioni abitative funzionali al turismo intensivo. Soluzioni che guardano sempre più alla valle che sale e sempre meno alla montagna che sta su, ma che permettono talvolta al rifugio di trasformarsi in sede di eventi, performance artistiche e laboratori culturali e ambientali.
Il rifugio resta fortunatamente il simbolo del turismo leggero e rispettoso: il così detto turismo “ecocompatibile”. Innanzi tutto perché di solito ci si sale a piedi, mischiando sudore e curiosità, guadagnandosi un piatto di pasta o una fetta di crostata. Poi perché il rifugio si trova nei posti migliori, alti, panoramici, i più lontani dall’inquinamento luminoso delle città e i più vicini alla luce delle stelle. È la notte che fa di un rifugio un luogo diverso dagli altri, quando il silenzio avvolge la montagna e ci si sente finalmente soli, con il rumore del vento e le voci degli animali.
Il ruolo più propositivo del rifugio contemporaneo è probabilmente quello del posto tappa, che accoglie e rifocilla l’escursionista alla fine della sua giornata di cammino e gli permette di attraversare montagne, colli, genti, paesi, riconoscendo le comunanze e le diversità dell’ambiente, rimandando il più a lungo possibile la discesa a valle. Più la città è distante, più il rifugio è accogliente.
Enrico Camanni