Che l’intero settore legato al turismo invernale sia in ginocchio, da quasi un anno, è un dato di fatto e difficilmente i ristori economici sapranno colmare il vuoto, venuto a crearsi con la pandemia, nei bilanci del 2020/2021 e negli esercizi a venire. Un danno economico che rappresenta un grave deficit per le piccole e medie imprese locali, per la Regione stessa, oltre che per le attività montane. Anche le innumerevoli figure professionali stagionali degli alberghi, degli impianti e delle scuole sono state sacrificate dall’emergenza sanitaria comportando per loro una mancata occupazione sebbene, già in tempi normali, tale settore sia contraddistinto da elevata precarietà e basso riconoscimento economico.

Per le Regioni in zona gialla, con l’ultima speranza infranta di riaprire gli impianti il 15 febbraio, sfumano così anche gli sforzi economici del settore per adeguarsi alle linee guida in tema di sicurezza, a poche ore dalla riapertura.
Ciò che sta accadendo, a livello locale e globale, costituisce sì un dramma epocale, ma potrebbe rappresentare anche un’occasione di cambiamento divenuto, forse inaspettatamente e troppo repentinamente, oramai urgente per il futuro tanto economico, quanto sociale, oltre che ambientale, dell’ecosistema montano.
Gli esperti affermano da anni che le prime a subire le conseguenze dei cambiamenti climatici saranno proprio le montagne. Fra gli effetti che saranno più visibili, sebbene da qualche decennio vi siano già concrete testimonianze, ci sarà la mancanza di innevamento naturale al di sotto di una certa altitudine (oggi si parla di 1800 m), con il conseguente rischio di abbandono e degrado delle infrastrutture sciistiche e delle località stesse. Una situazione già ampiamente analizzata nell’accurato report dell’organizzazione internazionale Mountain Wilderness sugli impianti e i cantieri dismessi in Piemonte, Lombardia e Friuli Venezia Giulia.
Dagli anni ’70 ad oggi, secondo il rapporto Neve Diversa 2020 di Legambiente, l’abbandono di questi ecomostri ha deturpato nel solo Piemonte 22 siti. Nel 2005, nell’area ascrivibile alla provincia di Torino, sono stati censiti da CIPRA Italia, Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi, e dall’associazione Pro-Natura Torino 8 siti, quelli in cui la presenza di impianti, tralicci e scheletri di alberghi è più evidente.
Degrado ambientale e precarietà della sicurezza, in particolare per coloro che in quelle aree praticano attività sportive soft, quali l’escursionismo, la pratica delle racchette da neve e lo scialpinismo, rappresentano un danno la cui gravità, variabile da sito a sito, andrebbe risanata attraverso la bonifica del territorio o, in alcuni casi, con un progetto di riqualificazione, come suggeriscono gli stessi autori del censimento.
In particolare, nel territorio dell’Alta Val di Susa, tre siti risultano in condizioni particolarmente allarmanti dal punto di vista dell’impatto sull’ambiente e della sicurezza per le persone: Beaulard (Oulx), Pian Gelassa (Gravere) e Pian del Frais (Chiomonte).
Negli anni più recenti, nuovi impulsi dettati dalle allettanti promesse di progresso di eventi come le Olimpiadi del 2006 hanno esercitato ulteriori pressioni sull’ambiente alpino, già estremamente provato dagli eccessi di utilizzo di suolo, dal disboscamento e dalla cementificazione, investendo in opere milionarie del tutto inutili, se analizzate alla luce del rapporto costi-benefici di medio e lungo termine.
Oggi l’innevamento programmato per lo sci, utilizzato dalla stragrande maggioranza dei comprensori, così come la gestione e la manutenzione degli impianti, rappresenta un dispendio macroscopico di risorse idriche, energetiche ed economiche, anche pubbliche. Ciò nonostante, tali investimenti non riescono a garantire sufficienti guadagni per le società di impianti con il risultato di tenere in vita un settore in perdita, quello dello sci, che Legambiente definisce con una metafora, tanto forte quanto eloquente, un accanimento terapeutico.
Il motivo principale di questo declino trova riscontro nei cambiamenti economici e socio-culturali avvenuti negli ultimi decenni che si traducono, in sostanza, nel progressivo calo dei flussi di sciatori e sciatrici. Terre Alte riporta l’interessante intervista del 2005 su “L’Adige” di Trento di Giorgio Daidola, professore universitario ed esperto della montagna, secondo cui «dal 1997 al 2004 lo sci ha registrato un -24% a fronte di un costo complessivo per l’innevamento artificiale di circa 136 mila euro ad ettaro. E il 60% delle stazioni sulle Alpi è in deficit». Nella stessa direzione vanno le considerazioni del 2020 International Report on Snow & Mountain Tourism secondo cui il mercato del turismo sciistico italiano è, per diverse ragioni, ormai maturo, destinato ad essere rimpiazzato da altro, anche a fronte di un continuo incremento di persone appassionate di montagna in senso più ampio, dalle attività più soft alle proposte culturali del territorio alpino.

Perché allora non assecondare questi segnali che sotto numerosi aspetti suggeriscono la necessità di abbracciare la transizione dalla monocultura intensiva dello sci, emblema di una generazione nata sotto il cielo del boom economico, in favore di nuove prospettive più rispettose dell’ambiente?
Mettere in discussione il sistema turismo-invernale delle Alpi non significa sacrificare le esigenze di una valle o di una comunità montana, rappresenta piuttosto una saggia strategia di governance che sappia affrontare lo sviluppo sostenibile del territorio alpino come opportunità, anziché come disgrazia. Del resto, quello della protezione della regione alpina, è il pilastro fondante la Convenzione delle Alpi, entrata in vigore nel 1995, cui anche l’Italia ha aderito.
La Convenzione, strumento per la sostenibilità giuridicamente vincolante, rappresenta un importante punto di unione fra i singoli Paesi Alpini i quali, sebbene differenti l’uno dall’altro, sono chiamati a “salvaguardare i sensibili ecosistemi alpini, insieme alle identità culturali regionali, al patrimonio e alle tradizioni delle Alpi per le generazioni future”.
In merito alla transizione dell’economia montana delle Alpi, la ONG Cipra suggerisce 3 principi guida che dovrebbero orientare le politiche a livello locale e regionale: la salvaguardia e la riqualificazione dell’ambiente; la diversificazione e tipicità dell’offerta e il miglioramento della qualità, in termini di accoglienza, paesaggio e servizi pubblici (Cipra 2017).
Il futuro delle Alpi dipenderà da quanto saremo in grado di gestire la tensione da sempre esistente tra natura e impatto dell’attività umana su di essa divenuta, oggi più che mai, materia assai delicata e questione di sopravvivenza economica, sociale e, non da ultima, ambientale.
Sabrina Allegra

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