La grande questione dei cambiamenti climatici in area alpina, e degli impatti di breve e lungo periodo che determina, apre a riflessioni di importanza centrale non solo per le cosiddette “scienze dure” e naturali, ma costituisce un tema chiave anche per quelle sociali e culturali. Come ha messo in luce l’antropologia, il cambiamento climatico è materia complessa, materia che riguarda al contempo aspetti prettamente scientifici e aspetti completamente sociali, storici e culturali: “non esiste evidenza significativa, aspetto problematico né discorso sul clima senza una società che lo vive, lo commenta, lo misura, lo confronta con il proprio passato, tanto recente quanto lontano” (E. Bougleux, 2017). Al pari di ogni altro evento antropologico, che coinvolge cioè il nostro portato di esseri umani, attraverso culture, pratiche, sistemi di conoscenza e di credenza, le conseguenze dei cambiamenti climatici necessitano, per essere compresi, affrontati e gestiti, di orizzonti e di cornici di riferimento di più ampio respiro.
Le comunità alpine coinvolte in questi processi di mutamento sono divenute centrali nell’agenda di ricerca dell’antropologia: in particolare, gli interessi più recenti della disciplina si stanno centrando sull’analisi delle capacità di risposta e di adattamento che queste sono, e saranno, in grado di mettere in campo nella sfida ai cambiamenti in atto. Occuparsi di clima e farlo nelle “Alpi dell’Antropocene” implica muoversi su di un terreno, un “campo di ricerca”, in cui includere nozioni che vanno dai modelli fisici e matematici, ai dati storici e di memoria delle comunità, fino agli scenari di rischio e ai disastri. Significa includere nel discorso una pluralità di oggetti e di voci: a partire da temi come l’alpinismo, le professioni della montagna, i nuovi e i vecchi montanari. Significa parlare di spazio, di paesaggio, di turismo, di economia, di ecologia, di vulnerabilità, di gestione del territorio e delle emergenze. Come sottolinea il sociologo Manuel Castells, lo spazio “è” – sempre – in relazione con altri elementi, in particolare con gli esseri umani, che gli danno una forma, un “significato” (M. Castells, La nascita della società in rete, 2014, Milano, Università Bocconi Editore). La relazione che le comunità intrattengono con i “loro” luoghi coincide con il tentativo costante di dare a questi un “ordine”, un senso, di addomesticare, segnare, il paesaggio attraverso la cultura. Le comunità alpine —che nei secoli si sono adattate e hanno dato senso a questi luoghi— sono chiamate in prima persona a far fronte ai cambiamenti in atto (ritiro dei ghiacciai, eventi climatici estremi, alluvioni, frane, diverso approvvigionamento idrico, ecc…) e agli impatti di questi sulle economie locali. Non solo, a questi fenomeni si vanno a sovrapporre anche tutti quei processi di consumo e di degrado ambientale che sono un “prodotto storico” di dinamiche ecologiche e sociali insieme: processi che sono evidenti nella “cementificazione della montagna”, nella perdita dell’equilibrio e della distribuzione degli spazi – abitativi, turistici, sciistici, agricoli, ecc… – del territorio, o nell’aggiunta di strutture che rompono la relazione tra natura e storia, o anche nell’abbandono delle aree marginali, dei boschi, e nella rovina dell’architettura rurale. Le comunità di montagna però non sono spettatrici passive o neutrali di questi scenari di crisi, non sono “una costante prevedibile” all’interno di un algoritmo, al contrario, ne sono parte integrante e attiva; agiscono, e dall’interno possono influenzare e modificare molte delle risposte al cambiamento, così come le attese e le previsioni future.
L’elemento fondamentale che le guida, e che guida l’azione umana di risposta in questi contesti è sempre l’esigenza che alla “catastrofe naturale” non ne segua anche una “culturale”. Le condizioni di vulnerabilità ecologica e sociale, quelle che per intenderci orientano nella direzione di un possibile disastro, e sono individuabili nella progressiva “erosione della convivenza” tra le comunità e il loro ambiente, coesistono e con-vivono con le capacità e le strategie operative di adattamento alla crisi, di cui le comunità di montagna hanno storicamente dato prova, e che hanno permesso alla civiltà alpina di raggiungere risultati sorprendenti in fatto di architettura, arte e cultura. Sarebbe dunque il caso, generalizzando un po’, di considerare le Alpi e le comunità che le abitano non come un mondo contrapposto o alternativo alla pianura e ai grandi centri politici ed economici, quanto piuttosto come spazi di relazioni, luoghi di contaminazioni e di cambiamenti, un punto di partenza, forse, per grandi imprese “conoscitive” ed esplorative in senso scientifico e sociale.
Elisabetta Dall’Ò, Post Doctoral Research Fellow, Adjunct Professor, Dipartimento CPS, Università degli Sudi di Torino