Non è un anno semplice questo 2020, già profondamente segnato dalla pandemia. Assieme alla ripresa del contagio, l’autunno porta eventi climatici straordinari e particolarmente intesi, come quello avvenuto a Limone Piemonte, in Val Vermenagna.
Straordinari, ma forse non troppo, nelle condizioni permanentemente eccezionali di climate change che segnano il nostro tempo. Comunque di eccezionale impatto sul fragilissimo assetto del nostro territorio, da troppo tempo ormai in deficit di manutenzione.
Vi propongo due immagini che, con eloquenza, ci parlano di quella che forse è la più grande trasformazione che il Paese ha conosciuto nell’ultimo mezzo secolo: la progressiva ritirata delle aziende agricole dall’impegno sistematico rivolto alla cura del territorio non urbanizzato, per quanto fosse marginale e improduttivo.
Al primo censimento agricolo moderno, nel 1961, le aziende agricole esercitavano una azione di governo che presidiava direttamente oltre il 90% del territorio nazionale. Una copertura pressoché totale se si considera la presenza, fuori dalla superficie aziendale, di spazi urbani e territori sterili di alta quota.
Valeva in quegli anni una sostanziale identità, nei territori dell’insediamento appoderato, tra unità produttiva (l’azienda), unità sociale (la famiglia contadina) e unità insediativa (il podere), espressione elementare di una continuità del ciclo ecologico dell’agro-ecosistema. Certo c’erano state le rotture determinate dall’eccesso di prelievi nella battaglia del grano e nel freno forzoso all’emigrazione, ma non avevano intaccato la coerenza di questo modello.
Cinquanta anni dopo al controllo aziendale erano stati sottratti quasi centomila kilometri quadrati, un terzo dell’intera estensione territoriale del Paese; un territorio “consumato” solo in parte modesta dalla avanzata dell’urbano; in parte assai maggiore scomparso nell’abbandono di boschi non più curati, di pascoli non più monticati, di coltivi inselvatichiti, di terrazzamenti che franano a valle.
Questo ha determinato una evidente caduta della manutenzione del territorio i cui riflessi condizionano le attuali condizioni di sicurezza dell’insediamento.
I tempi per ricomporre un nuovo equilibrio, governato da dinamiche naturali non più accompagnate dall’apporto di energia umana, non sono brevi mentre crescono esponenzialmente i rischi per la stessa conservazione della biodiversità e per la sicurezza di un territorio percorso da acque non più regimate.
Le geografie della grande ritirata delle aziende agricole dallo spazio rurale più marginale, disegnano le forme di un’Italia sconosciuta, ma assai coerente con le geografie del rischio naturale che riempiono le cronache dei nostri giorni.
Al 1961 in tutte le regioni Italiane la stragrande maggioranza dei comuni montani era popolato da aziende agricole che governavano tre quarti almeno della intera superficie territoriale.
Dallo spazio più naturale della Valle d’Aosta, segnato dalla presenza imponente di terreni sterili e ghiacciai di alta quota, dove solo il 58,1% dei comuni montani superava la soglia dei ¾ di territorio governato dalle aziende, al territorio più antropizzato delle Marche, dove la totalità dei comuni montani assicurava questo presidio.
Aziende agricole che con il loro lavoro, assieme alla produzione di alimenti talvolta ancora rivolta ad un autoconsumo di sussistenza, assicuravano servizi di manutenzione dello spazio rurale, non riconosciuto né compensato in alcun modo, che rappresentava, come esternalità, un valore economico significativo.
Dopo cinquant’anni lo scenario è capovolto: in nessuna regione d’Italia i comuni montani in cui le aziende agricole esercitano un esteso controllo del territorio, rappresentano più la maggioranza.
La condizione migliore è quella della Provincia Autonoma di Bolzano dove ancora il 43,5% dei comuni montani è affidato alle cure degli agricoltori.
All’opposto in regioni come la Liguria, ma anche il Friuli Venezia Giulia o la Calabria, il territorio dei comuni montani è uscito quasi completamente dal controllo delle aziende agricole che non assicurano più la sua manutenzione.
In tutte le regioni italiane il paesaggio dei campi coltivati e degli spazi agro forestali curati dall’uomo non è più il paesaggio dominante della montagna.
È ragionevole porsi l’obiettivo di interrompere questa tendenza? Immaginare un orizzonte di ripresa demografica della montagna come propone la Strategia Nazionale per le Aree Interne e sottolinea l’esteso movimento che si raccoglie attorno al Manifesto di Camaldoli per una nuova centralità della Montagna?
Immaginare anche una estensione della superficie territoriale mantenuta e posta in sicurezza per l’azione convergente delle politiche pubbliche, delle comunità locali e di soggetti economici saldamente radicati in una logica di sviluppo locale?
Nella stagione in cui viviamo, la società contemporanea è tornata a portare la sua attenzione ai temi dell’alimentazione, al suo significato biologico ed etico ancor prima che economico. Ed è tornata a guardare agli alberi, al bosco, come compagno necessario della propria sopravvivenza sul pianeta.
La produzione di alimenti destinati ad un consumo più attento e responsabile, le produzioni forestali valorizzata dalla nuova attenzione alla sostenibilità delle costruzioni, la domanda di servizi allo spazio rurale che a qualità alimentare e a sostenibilità associano salute, conoscenza, formazione ed esperienza, la disponibilità di tecnologie che consentono connessioni inimmaginabili sino a poco fa, aprono nuovi orizzonti ad una stagione “di riconquista” del controllo dello spazio rurale da una presenza umana organizzata.
Una presenza che assieme alle forme “tradizionali” di una azienda agricola ormai divenuta professionale (e più ricca di capitale umano) assume anche quella di figure che hanno altrove le condizioni economiche della propria vita ma affidano alla agricoltura una parte importante della propria identità culturale.
Assume anche quella di soggetti comunitari – penso alle cooperative di comunità – che sperimentano nuove forme organizzative per ripartire sui molti portatori di interesse – diversamente ma solidamente legati ad un luogo determinato – le responsabilità e i rischi di una conduzione agricola e agroforestale immergendola nelle pratiche della multi-funzionalità. A questo orizzonte è possibile affidare una “riconquista” di spazio agro-forestale alla presenza umana, per assicurare esternalità positive, manutenzione e sicurezza, di cui il Paese avverte l’esigenza.
Per conseguire queste attese è necessario un impegno esteso e diffuso.
L’impegno della programmazione regionale, nazionale e comunitaria nell’attuazione dei propri Programmi di Sviluppo Rurale per riconoscere le priorità della conservazione e del governo delle risorse territoriali in quota non minore di quelle volte alla competitività delle imprese.
L’impegno delle comunità locali che devono attivare e sostenere nuovi “meccanismi di ingaggio” per ancorare al territorio le aspettative di realizzazione culturale ed economica di nuove generazioni di attori.
L’impegno delle istituzioni a rendere praticabili opportunità concrete per riportare in gioco porzioni di territorio che l’abbandono, le emigrazioni e le vicende ereditarie sembrerebbero aver definitivamente affidato all’oblio.
Giampiero Lupatelli