Luciano Bolzoni, Abitare molto in alto. Le Alpi e l’architettura, Priuli&Verlucca, Scarmagno 2009

Una riflessione sull’architettura alpina diventa interessante quando essa viene utilizzata come strumento per saggiare le grandi sfide che pone la cultura dell’abitare del XXI secolo. In questo senso allora, come giustamente specifica l’autore, Abitare molto in alto non è solo un libro di architettura, e non potrebbe esserlo.
Trattare in modo autoreferenziale l’architettura che è cresciuta tra i monti sarebbe infatti un’operazione poco corretta che non darebbe conto dei profondi legami che tengono assieme ciò che siamo e ciò che costruiamo, l’idea che abbiamo della montagna e le pratiche dell’abitare.
Parlare di architettura alpina è dunque per Bolzoni parlare necessariamente anche di altro: degli sguardi che hanno di volta in volta reinventato questo territorio, delle diverse culture che convivono sulle montagne, delle identità di chi sulle Alpi vive e lavora e di chi vi trascorre solo il fine settimana, di quelle degli insiders e degli outsiders.
C’è di più. Il paesaggio edificato alpino, più che altrove, non è solo lo specchio del nostro modo di vivere ma soprattutto la trasposizione dei nostri sogni, la necessità di ricreare tra le montagne il piccolo mondo ideale che ci è negato dalla città. L’immagine della tanto citata boule de neige non è altro che il “sogno del territorio su se stesso”, la sola rappresentazione condivisa del paesaggio alpino che tutti abbiamo in mente e di cui tutti ci sentiamo parte.
Sulle Alpi gli effetti della jolisation ci parlano del profondo bisogno di un mondo pittoresco da usare come rifugio, poco importa se surrogato e artefatto. Nell’affannosa ricerca di un altrove le carte si mischiano, l’autentico è di volta in volta manipolato, dal repertorio della tradizione si attinge con assoluta libertà e si riattualizzano i ritmi e i valori del passato, idealizzato o meno. È da qui che è necessario ripartire.
Come lo sono state per la modernità, le Alpi possono tornare a essere un laboratorio in cui – a partire proprio dalle grandi contraddizioni del nostro tempo – possiamo cominciare a immaginare percorsi di vita e di edificazione più articolati e “intelligenti”. In primis dando vita a modelli insediativi più complessi, in cui le identità locali possano realizzarsi secondo modelli di integrazione tra forme dell’insediamento e pratiche dell’abitare – e non più solo attraverso logiche a-topiche di crescita mascherate da stilemi pseudo-tradizionali o ancora guardando all’architettura come parte di una filiera produttiva che tra i monti cresce e si sviluppa.
Se le pratiche dell’abitare la montagna costituiscono un’alternativa all’obsolescenza dei modi e degli stili di vita urbani, allora lo studio del territorio alpino permette di esplorare la contemporaneità molto di più di quanto ci aspettiamo. Se gli stessi valori del passato sono stati di nuovo ricaricati di significato, nell’architettura ma non solo, allora questi diventano un riferimento più che mai attuale se guardati non con la nostalgia della tradizione ma con la dirompenza dell’avanguardia.
Roberto Dini