Nell’ultimo decennio l’immaginario è profondamente cambiato. Da quando gli scienziati ammoniscono l’umanità sulle conseguenze dell’effetto serra e nelle case, nelle scuole e nelle piazze la gente discute di riscaldamento globale, il ghiaccio è diventato il simbolo della materia preziosa ed effimera. Vedendo gli orsi polari che vanno alla deriva sulle zattere di ghiaccio, guardando gli iceberg che si disfano come castelli di carta, anche le persone distratte si sentono coinvolte e la paura e la presa di distanza di un tempo lasciano il posto allo stupore, all’identificazione e addirittura al rimpianto verso una meraviglia della natura che era nostra e forse non lo sarà più. Perché il ghiaccio è il termometro più visibile del cambiamento climatico e la fulminea fusione del ghiaccio e dei ghiacciai è la rappresentazione più inequivocabile dello squilibrio ambientale. In pochi anni la vecchia immagine del ghiaccio crudele e vendicatore è stata sostituita dall’idea di una cosa fragile che scompare senza lasciare traccia.
La prima magia del ghiaccio consiste esattamente in questo: incanto e caducità. L’acqua gelata genera solidi dalle infinite forme che crescono, si modificano, si uniscono, si separano, e infine fondono e scompaiono con il calore. Alla caducità della materia si contrappongono la durata e il potere conservativo. Da una parte la candela che si consuma al sole, dall’altra il relitto gelato fossile, duro come la pietra. Un corpo di ghiaccio può nascere e morire in poche ore, può trasformarsi in forme fantasmagoriche e plastiche, ma può anche resistere al buio per decine e decine di millenni. Basti pensare alle carote di ghiaccio dell’Antartide che entro il 2025 ci restituiranno un campionamento del clima terrestre di un milione e mezzo di anni.
Quando un paesaggio cambia sotto gli occhi riemerge la memoria del passato, e così anche il disagio della modernità di fronte alla scomparsa dei ghiacciai deriva in buona dal confronto con un paesaggio romantico mai del tutto rimosso, nel ricordo edulcorato di un mondo di abitazioni rustiche e orti terrazzati in media montagna, cascate di ghiaccio e campi innevati in alta quota, oggi sostituiti da cemento, parcheggi e seconde case negli abitati, pietraie e residui glaciali sopra i duemilacinquecento metri. Il senso di smarrimento si fonda inoltre su percezioni più sfumate ma egualmente fondate di mondi ancora più antichi, che la scienza ha decriptato in due secoli di studi glaciologici. Di fronte ai segni possenti lasciati dai ghiacciai, ben visibili nel modellamento delle valli e negli anfiteatri morenici, cresce il dubbio che la civiltà antropocentrica stia insidiando remotissime leggi di natura. Nella storia dell’uomo è la prima volta che sappiamo con certezza di essere corresponsabili di una mutazione climatica e ambientale a livello planetario. Lo dicono i numeri della scienza, non le omelie degli uomini di chiesa.
Eppure è stata la religione, più seriamente della politica, a caricarsi le domande scomode quando il riscaldamento globale ha assunto dimensioni bibliche. Il concetto di “peccato ecologico” è emerso frequentemente nel dibattito teologico e religioso. Nel dicembre 2009, al Vertice sul Clima organizzato a Copenaghen dalle Nazioni Unite, molte voci si sono levate dalle varie chiese e comunità del mondo minacciato. Nel Duomo di Arzignano i fedeli cattolici, ortodossi, induisti, sikh e musulmani hanno recitato insieme la “Preghiera per il clima” invocando il sostegno divino. A maggio 2015 è arrivata la rivoluzionaria enciclica “Laudato si’ ” di papa Francesco, una lunga preghiera scientificamente documentata che, analizzando il presente, sprona alla cura della casa comune. La lettera ispirata alla lode di Francesco d’Assisi è il più limpido grido d’accusa verso il danno commesso dall’uomo contemporaneo. Magari la politica avesse quel coraggio!
Dunque sappiamo tutto, conosciamo il problema nei minimi dettagli, e la responsabilità verso le future generazioni dovrebbe indurci ad agire senza tentennamenti, ma se proprio non c’importa di chi erediterà la Terra potremmo almeno appellarci alla logica: sono circa due secoli che abbiamo convertito la repulsione per il ghiaccio in attrazione fisica ed estetica; da due secoli contempliamo la bellezza dei ghiacciai e ne celebriamo la purezza, li dipingiamo, li narriamo, li sogniamo, li scaliamo, li sciamo, li decantiamo e li mortifichiamo con i gas serra. L’ammirazione e la distruzione vanno di pari passo in un evidente cortocircuito sociale, economico e culturale, perché l’uomo romantico che ama e rimpiange i ghiacciai è lo stesso uomo industriale che li umilia.
Enrico Camanni