Enrico Camanni, Ghiacciaio del Miage
Il primo contributo d’autore alla Carovana dei ghiacciai è stato offerto da Enrico Camanni, che giusto 10 anni fa ha pubblicato per Priuli e Verlucca “Ghiaccio vivo: storia e antropologia dei ghiacciai alpini” e quest’anno ha replicato con “Il grande libro del ghiaccio” (leggi la recensione a cura di Michele Freppaz) per Laterza. Dall’indifferenza di allora, il tema è diventato di pubblico dominio, con tutti i limiti dell’informazione generalista: fa più rumore un crollo al ghiacciaio di Planpincieux che la lenta agonia di tutti i ghiacciai. Ecco una riflessione di Camanni sul Miage.
«Il Monte Bianco è un fantastico contenitore di ghiacciai dalle mutevoli forme e dimensioni. I più grandi scendono sul versante francese, ma sul lato ovest del massiccio, versante italiano, c’è un fiume lunghissimo che si chiama Miage. Il fiume congelato non si vede quasi più, coperto da una corazza di detriti scuri, eppure scende ancora per almeno dieci chilometri infilandosi nella Val Veny e baciando le tende dei campeggiatori. I glaciologi dicono che il Miage “è il simbolo dei ghiacciai neri o debris covered glaciers italiani. La porzione terminale della lingua è colonizzata da una ricca vegetazione erbacea e da piante arboree, in prevalenza larici, che registrano nelle caratteristiche morfologiche del tronco e nella sequenza degli anelli di crescita annuali i movimenti e le sollecitazioni glaciali”. In pratica il Miage è un relitto glaciale spiato da relitti vegetali. La Carovana dei Ghiacciai è partita da lì, precisamente dal cratere in cui un tempo si apriva il verde lago glaciale. In una giornata velata in cui anche il cielo poneva interrogativi, ci siamo trovati di fronte al grande fiume coperto di sassi, specchio della nostra epoca: da un lato il riscaldamento climatico che cambia volto al Monte Bianco, dall’altro la potenza del ghiaccio che resiste, ponendoci di fronte alle nostre responsabilità».

Sax Young, Passo dei Salati,  gruppo del Rosa
Con un impeccabile dress code da concerto, portato in spalla insieme agli strumenti, i Sax Young hanno suonato a 2900 metri, sulla terrazza dell’Istituto scientifico Giovanni Mosso. A nome di questo quartetto di musicisti vercellesi tra i 21 e i 23 anni parla il sax contralto, Francesco Deangelis: «Quando Carolina Melpignano della Camerata Ducale di Vercelli ci ha parlato della Carovana dei Ghiacciai abbiamo aderito con entusiasmo, anche se ero un po’ scettico sulla nostra tenuta fisica: suonare uno strumento a fiato a quella quota è davvero una sfida. Lo è stata, ma lo rifaremmo! E’ stata soprattutto una grande emozione suonare in un contesto così particolare, selvaggio e affascinante, e per sostenere una campagna così importante e urgente». Un breve concerto, con brani che hanno spaziato da Oblivion di Piazzolla al tema di Nuovo Cinema Paradiso, fino a Moonlight Serenade di Glenn Miller. Attraverso i social, dice Francesco, oggi è più facile per i giovani entrare in contatto con le tematiche ambientali. Ma è l’esperienza diretta che fa la differenza: «I miei hanno una casa in montagna, e mi ricordo il ghiacciaio del Gran Paradiso com’era 15 anni anni fa: praticamente il doppio di adesso. E’ triste e impressionante che pur essendo così giovane, in un lasso di tempo infinitesimale rispetto ai ritmi della Terra, io abbia potuto assistere a un cambiamento di questa  portata. Penso che ognuno di noi possa dare il suo contributo per limitare i danni. E’ necessario che ognuno faccia la sua parte, anche se l’azione individuale può sembrare insignificante, non lo è. La forza sta nell’agire insieme: ma non c’è tempo da perdere, ci vuole più consapevolezza diffusa per preservare quel poco che rimane».

Martin Mayes, Ghiacciaio dei Forni, Bormio
«A Bormio c’è stata la conferenza stampa più bella che ho mai visto: tutti dicevano cose importanti, con competenza  e passione. Ma l’intervento che mi ha colpito di più è stato quello di una giovane geologa, che ha detto: “Scusate, non riesco a parlare, tutto questo mi tocca nel profondo, sono troppo coinvolta.” Mi ha ricordato Greta Thumberg che dice: io ho paura, dovremmo tutti avere paura. In questo momento l’angoscia dominante è il Covid, ma la crisi climatica è ben più grave. Il Covid è come un  nemico esterno, da cui ci possiamo difendere, mentre il nemico del clima siamo noi stessi, il genere umano. Il problema è che non abbiamo più il concetto del tempo della natura. Mi viene in mente Craig Foster, biologo marino e documentarista sudafricano. Dopo anni in giro per il mondo si è preso un anno di pausa: abita sull’oceano, e ogni giorno ha fatto il bagno nello stesso posto. Pian piano, ha fatto amicizia con un polipo. Ha tirato fuori il suo aspetto femminile. Invece di andare a caccia del polipo ha aspettato che fosse lui ad avvicinarsi. Mi ha fatto capire che solo stando nello stesso posto e avendone cura si può vivere in armonia con la natura». L’anno scorso, Martin Mayes è stato il pioniere del tributo ai ghiacciai, suonando al requiem celebrato al Lys, 2300 metri di quota. «Suonare in un luogo dove il tuo contributo si integra con il contesto è un onore, è qualcosa di speciale. Il corno delle Alpi è parte integrante della cultura delle montagne, è come se fosse una loro voce». I ghiacciai sono esseri viventi in via di estinzione, e Martin lancia una proposta: realizzare un progetto partendo dai contributi dei musicisti che hanno suonato durante la Carovana, integrando nella composizione i suoni dei ghiacciai, come ha fatto Vittorio Demarin alla Marmolada. Il precedente è “A guide to Birdsong”, ideato nel 2015 dal compositore inglese Robin Perkins e dedicato agli uccelli selvatici, altre creature viventi minacciate come i ghiacciai. Finora sono stati realizzati 2 album, uno dedicato alle specie del Sud America e un altro appena uscito, con le voci agli uccelli dell’America Centrale.

Vittorio Demarin, Marmolada
Polistrumentista, Vittorio Demarin è partito dal violino ed è arrivato anche a costruirsi da solo gli strumenti, per ottenere nuove e insolite sonorità. Per l’omaggio alla Marmolada ha raccolto sul campo i suoni di un ghiacciaio, intrecciandoli con la voce della sua viola. «Ho creato una tavolozza, che ho utilizzato come una sorta di tastiera. Un tappeto sonoro su cui dal vivo ho interagito, con la viola e con uno strumento elettroacustico costruito da me, una scatola di latta con molle, amplificata, che ricorda un po’ certi suoni dei ghiacciai». Perché ha tante voci, il ghiacciaio: tra quelli che possiamo udire, i suoni delle microbollicine d’aria imprigionate nel ghiaccio che scoppiano durante la fusione. E poi i tonfi, il rumore delle spaccature e dei cedimenti. Ma ci sono anche frequenze profonde, inudibili per l’orecchio umano. Suonare in un contesto simile è stata un’esperienza straordinaria, dice Vittorio, che come tutti i musicisti ha suonato gratuitamente: «Ho dato, ma ho ricevuto molto di più». E’ stato un modo per celebrare il suo legame con la montagna. Fin dall’infanzia frequenta l’altopiano di Asiago, e ancora oggi, a 42 anni, la montagna per Vittorio è sinonimo di evasione, di vacanza. Anche la “sua” montagna è cambiata: «Ha avuto sempre più successo, ma se arriva troppa gente il territorio inevitabilmente cambia. Ho visto con i miei occhi anche l’effetto del cambiamento climatico, tante realtà meno conosciute morire di abbandono, mentre altri luoghi sono diventati così popolari che mi attirano di meno: troppa gente, troppe strutture. Molte piccole cose sono andate perdute, è cambiata l’atmosfera».

Carlo La Manna, Ghiacciaio di Sforzellina
«Quand’ero piccolo volevo foglie al posto dei capelli, rami invece delle braccia e radici invece delle gambe, perché volevo essere natura, e non uomo». Questa è la dimensione poetica di Carlo La Manna, musicista, “uomo che scrive” di 61 anni, “ma con animo da 12enne. Sono un solitario, ma mi piace donare, vivo di poco, passando con passo leggero sulla Terra”.
Al ghiacciaio della Sforzellina ha offerto un saggio delle “Storie di Enzo”, progetto realizzato insieme a Alessio Kogoj suo compagno di viaggio con i Teatri Soffiati. «Ho messo a disposizione le piccole storie e le piccole musiche scritte da noi durante il lockdown. Un periodo difficile per tutti, ma per qualcuno ancora di più: nell’isolamento, la solitudine ha colpito duramente chi non era attrezzato per conviverci e apprezzarla. Attraverso il Festival della Lentezza abbiamo lanciato la proposta di regalare quelle storie al telefono. Ci alternavamo, eravamo in tre, Siamo arrivati a rispondere a 50 chiamate al giorno, ci presentavamo dicendo: ciao, sono Enzo. E scattava la magia». Dalle favole al telefono è nato un libro, e un altro progetto, “il quadro parlante”. Dove il rapporto è sempre 1 a 1, e attore e spettatore sono separati da una lastra di plexiglass incorniciata e sospesa all’aperto, in mezzo alla natura. . Un quadro che continua a viaggiare, e ha fatto tappa in associazioni, case private e luoghi pubblici, come il Parco di Levico Terme, che lo ha acquistato. Teatro per 5/6 persone all’ora, e rapporto 1 a 1: «E’ un lusso in un momento di estrema povertà», dice Carlo. Per lui, la montagna è un altro mondo: «La vicinanza al cielo e alle stelle per me è un nutrimento. E quella notte al rifugio, prima della performance sul ghiacciaio, c’era una stellata pazzesca».

Gianluca Russo, Ghiacciaio del Travignolo
«Non avevo mai suonato la chitarra sopra i 2000 metri, e la situazione era molto complicata: faceva freddo, il cielo era cupo sul ghiacciaio del Travignolo, alle Pale di San Martino. Per farmi sentire ho portato piccole attrezzature professionali. Il paradosso è che la tecnologia, anzi la tecnocrazia che ci ha in pugno ed è anche responsabile della fusione di ghiacciai, ci permette di fare cose che 15 anni fa sarebbero state impensabili». Mentre Gianluca suonava Allelujah, c’è stato un crollo sul ghiacciaio, con un boato impressionante. «Mi verrebbe da fare una battuta: magari non gli è piaciuta la canzone… Scherzi a parte, i ghiacciai sono creature vive, mutano, si muovono. Ci parlano. Sono indicatore eclatanti del cambiamento climatico, penso che oggi non ci sia un tema più importante. Dovrebbe essere per tutti un pensiero fisso e dominante. Il punto di svolta per me è stato quando ho rivisto da adulto il lago Trasimeno, dove ero andato con mio nonno da bambino. Mi ricordavo acque cristalline, che vent’anni dopo erano diventate marroni. Mi ha scioccato, è stato come rivedere un amico dopo tanto tempo e non riconoscerlo affatto. A proposito dell’esperienza con la Carovana dei Ghiacciai, mi ha colpito la scarsa curiosità di alcuni escursionisti che hanno incrociato il nostro gruppo per caso. Il rischio, insomma, è di confrontarsi tra persone già informate e coinvolte, senza riuscire davvero a raggiungere chi è potenzialmente sensibile. Penso a quegli adolescenti cresciuti in questa cultura dell’apparenza: sarebbe decisivo, per la loro crescita e per costruire un futuro che è soprattutto loro, se si rendessero conto di essere, come tutti noi, un piccolo tassello dell’enorme ingranaggio che ha indotto nel pianeta la malattia che stiamo vivendo».

Claudia Apostolo