Probabilmente non a tutti i frequentatori dell’alta montagna sono noti i “ghiacciai di pietre”. Con questo nome piuttosto insolito si indicano colate detritiche costituite da massi spigolosi talora di grandi dimensioni, che scendono dai piedi delle pareti rocciose, solitamente al di sopra dei 2500 m, e sono caratterizzate da una forma a lobo o a lingua, che può ricordare le lingue dei ghiacciai. Da qui la denominazione inglese, rock glacier, utilizzata anche in italiano. Meno frequente l’uso di termini come “ghiacciaio di pietre”, “ghiacciaio di roccia”, oppure, come scrivevano gli autori italiani della prima metà del secolo scorso, “pietraie semoventi”. Come i veri ghiacciai, queste colate, che possono essere lunghe anche centinaia di metri, si muovono lungo il pendio, presentano un settore inferiore convesso e con strutture di flusso (rughe e solchi arcuati), nonché una fronte ripida. Le analogie tuttavia si fermano qui; la loro velocità si misura in centimetri o pochi decimetri all’anno (mentre i ghiacciai “veri” hanno velocità anche di decine di metri all’anno). E, soprattutto, il detrito non forma uno strato superficiale che nasconde un vero e proprio ghiacciaio, come avviene per i “ghiacciai neri” o debris covered glaciers, con i quali talora vengono confusi (un esempio classico di “ghiacciaio nero” è il Miage ai piedi del Monte Bianco).
I “ghiacciai di pietre”, al di sotto dello strato superficiale di grossi massi, sono formati da un impasto di detriti più fini e di ghiaccio interstiziale (o anche in piccole lenti), derivante dal congelamento dell’acqua che circola fra i detriti. Questo materiale permanentemente gelato, che può avere spessori da qualche decina di metri a più di cento, viene denominato permafrost. Questa particolare struttura è stata evidenziata soprattutto in tempi recenti sia con perforazioni e scavi di trincee, sia con rilievi geofisici (ad esempio prospezioni sismiche, elettriche o radar). I “ghiacciai di pietre” si possono quindi definire la manifestazione più evidente, e anche più spettacolare, della presenza del permafrost sulle Alpi, che è condizionata da particolari caratteristiche climatiche, una temperatura media annua dell’aria inferiore a -2°C e precipitazioni medie annue inferiori a 2500 mm. A differenza di quanto si potrebbe pensare, si tratta di forme diffusissime, e questo è dimostrato dai catasti realizzati nelle varie regioni alpine. Sul versante italiano, ad esempio, ne sono stati censiti oltre 1500, di cui però circa l’80% viene classificato “inattivo”; si tratta di forme antiche, ricoperte da vegetazione, prive ormai di ghiaccio interno e quindi anche di movimento (è infatti la deformazione del permafrost che ne determina il flusso), che si distribuiscono fra i 1700 e i 2300 m. A quote più elevate si trovano invece le forme attive, che danno un’impronta particolare al paesaggio dell’alta montagna e che si distribuiscono in tutti i settori delle Alpi Italiane dalle Marittime alle Giulie. Fra i numerosissimi esempi di aree dove sono presenti “ghiacciai di pietre” interessanti e spettacolari, vorrei ricordarne una sola: la Val Pisella. Ci troviamo in alta Valtellina, nel gruppo Ortles-Cevedale, dove il richiamo turistico e scientifico più importante è sicuramente il grande Ghiacciaio dei Forni. La Val Pisella è una piccola valle sospesa sul solco principale, proprio al di sopra dell’antico e noto Rifugio dei Forni, situata nel Parco nazionale dello Stelvio. Lungo la valle si susseguono, come è tipico delle valli di escavazione glaciale, settori ripidi e settori quasi pianeggianti, fino ad arrivare ai circhi superiori al di sotto delle pareti rocciose delle Cime dei Forni (3312-3247 m). Sono tre circhi ben evidenti, ciascuno dei quali ospita un “ghiacciaio di pietre” attivo, il più occidentale con una classica forma a lingua lunga 400 m, gli altri due con una forma a lobo.
La Val Pisella è una valle praticamente sconosciuta (solo in primavera è frequentata per lo scialpinismo), si cammina per ore senza incontrare anima viva, non esistono sentieri o tracce evidenti o punti di appoggio. Anni fa, sull’onda del frequentatissimo “Sentiero glaciologico dei Forni”, avevo pensato alla realizzazione di un “Sentiero dei Ghiacciai di pietre” per far conoscere il fascino particolare di questa valle, per “valorizzarne” le caratteristiche paesaggistiche. Ora non so più se sia una buona idea; forse varrebbe la pena di lasciarla così com’è, senza tracce, senza sentieri, senza indicazioni. Solo un cartello al rifugio per fornire informazioni sulle peculiarità paesaggistiche e gli interessi scientifici e soprattutto per avvertire chi vi si accosta che non troverà tracce, che dovrà crearsi il proprio itinerario, che dovrà sapersi orientare, che dovrà immergersi in una piccola ma reale wilderness, con il fascino ma anche i rischi conseguenti. Forse un’ennesima occasione per affrontare il difficile (insolubile?) problema del delicato equilibrio fra l’esigenza di fruizione della montagna e l’esigenza di conservarne le caratteristiche ambientali.
Claudio Smiraglia