La maggior parte del cibo che mangiamo ogni giorno rappresenta il prodotto finale di reti che hanno un’estensione molto ampia, spesso globale. Per come funzionano oggi i sistemi del cibo agroindustriali, è quasi inevitabile che un prodotto come la Nutella (tirata in ballo a sproposito dalla politica, ma studiata rigorosamente qui dall’Ocse) sia composto da nocciole turche, olio di palma malese, zucchero di canna brasiliana e cacao nigeriano. La globalizzazione, la produzione di massa e, soprattutto, il capitalismo funzionano così. Quello che andrebbe indagato e, quando necessario, condannato, sono le ricadute ambientali e sociali delle fasi della filiera produttiva, ovunque esse abbiano luogo.

In un saggio del 2006 intitolato “Worlds of Food”, i ricercatori britannici Kevin Morgan, Jonathan Murdoch e Terry Marsden mettono però in evidenza come nell’agroalimentare, ancora più che in altri settori, i processi produttivi non possano slegarsi completamente da luoghi e territori, per ragioni che gli autori associano a due parole chiave: natura e cultura. La natura fa sì che fattori come il clima, la pendenza o le caratteristiche dei suoli siano determinanti nel favorire o ostacolare la produzione di alimenti in un determinato luogo. La cultura invece esprime saperi, pratiche e idee relative al cibo, che influenzano il modo in cui questo è consumato.
Il ruolo che l’intreccio di natura e cultura ha nel determinare le caratteristiche di un prodotto alimentare è diventato sempre più importante con l’evoluzione degli interessi e dei comportamenti dei consumatori che, spesso in reazione al cibo industriale globalizzato, sono più attenti alla provenienza di ciò che mangiano e ai legami dei prodotti con i luoghi, le persone e i saperi da cui provengono.

I prodotti di montagna rappresentano un esempio emblematico del rapporto tra ambiente, cultura, paesaggio e alimentazione e sono infatti al centro di innumerevoli progetti e politiche di sviluppo del territorio e di strategie di mercato. Come spesso avviene, agricoltori, allevatori e artigiani alpini possono fare leva sull’interesse dei consumatori (prevalentemente urbani) per i prodotti della montagna per aumentare il proprio guadagno, mentre le istituzioni possono costruire intorno alla valorizzazione delle filiere agroalimentari progetti di sviluppo locale.
Negli scambi città-montagna intorno alle produzioni agroalimentari, il vantaggio può essere reciproco: i consumatori possono avere accesso a prodotti di altissima qualità, derivanti da filiere sostenibili e radicati nella cultura alimentare alpina; i produttori e le comunità di montagna ricevono un sostegno economico per filiere che possono contribuire al mantenimento del paesaggio e del territorio e al benessere di chi li abita.
Sarebbe un errore però considerare i prodotti di montagna del tutto slegati dalle filiere agroindustriali e globalizzate. Molti prodotti “tipici” delle terre alte, anche quando associati ai territori di montagna da marchi di origine geografica (come Dop e Igp), sono infatti del tutto integrati in queste dinamiche, non solo per quanto riguarda l’accesso a mercati internazionali, ma anche per i meccanismi di approvvigionamento di alcune materie prime. Come è noto, ad esempio, la maggior parte della Bresaola di Valtellina Igp è prodotta con carne proveniente dall’estero (Francia e Sudamerica soprattutto), per ragioni legate alle caratteristiche del prodotto finale richieste dai consumatori e all’impossibilità di sostenere con l’allevamento locale le grandi quantità di produzione richieste dal mercato. Il legame con il territorio valtellinese è innegabile: da secoli in quel territorio si produce un salume chiamato “bresaola” con caratteristiche simili a quella attuale, inoltre ogni bresaola Igp secondo il disciplinare deve essere “elaborata” (cioè trasformata e stagionata) in provincia di Sondrio. Il marchio Igp (Indicazione geografica protetta), regolamentato dalle normative europee, prevede infatti che almeno una fase del processo produttivo avvenga nel territorio a cui il prodotto finale è associato dal marchio. La Denominazione di origine protetta (Dop), ha invece requisiti più stringenti e prevede che l’intera produzione avvenga in un dato territorio. In alcuni casi, però, nemmeno questo è sufficiente a garantire che un prodotto sia realmente frutto di un’economia di montagna, a causa di areali di produzione troppo ampi, che a fianco dei piccoli produttori d’alta quota includono realtà semi-industriali di fondovalle o di pianura.

Affinché lo scambio di cibo tra città e montagna generi i vantaggi reciproci descritti sopra è quindi fondamentale che i consumatori urbani si interroghino riguardo al tipo di territorio e di paesaggio prodotti dalle filiere produttive di ciò che acquistano. Al tempo stesso è necessario che le informazioni associate ai prodotti siano il più dettagliate possibile. La generica associazione al territorio montano o a una specifica area di produzione di un formaggio, di un salume o di un prodotto ortofrutticolo non è sufficiente a garantire che quel prodotto sia inserito in sistemi produttivi sostenibili e non predatori nei confronti delle risorse delle terre alte. Come sostiene da tempo Slow Food, i prodotti dovrebbero essere accompagnati da vere “etichette narranti”, che spieghino ai consumatori le caratteristiche di ogni fase della produzione e i legami tra questa e i territori in cui si articola. Nel caso di alcuni prodotti di montagna, come i formaggi, si potrebbe arrivare ad associare i prodotti a luoghi e sistemi ambientali estremamente specifici, descrivendo con precisione il tipo di pascolo a cui hanno accesso gli animali nel periodo dell’anno in cui viene prodotto quel formaggio, estendendo ai prodotti caseari il concetto di “cru”, già presente in enologia, come ha proposto in una recente intervista a Il Manifesto, il professor Andrea Cavallero dell’Università di Torino.
Il progetto Interreg Spazio Alpino “Alpfoodway”, raccontato negli ultimi tre anni sulle pagine virtuali di Dislivelli, ha rappresentato un’importante occasione di mappatura e coinvolgimento di decine di comunità di produttori sostenibili distribuiti su tutto l’arco alpino. Una delle principali ricadute attese è quella di aumentare la consapevolezza dell’importanza che alcune filiere hanno nel produrre territori e paesaggi di montagna, fondati sull’utilizzo sostenibile delle risorse culturali, sociali e ambientali delle terre alte. A partire a questa consapevolezza è necessario pensare a un’alleanza tra produttori, consumatori, cittadini e istituzioni di diversa scala, per immaginare relazioni di sostegno reciproco tra città e montagna.
Giacomo Pettenati

www.alpfoodway.eu