Alla prova della crisi economica e dei cambiamenti climatici, le Alpi restano in testa alle mete mondiali del turismo. Le statistiche dell’Ocse calcolano tra i 60 e gli 80 milioni di turisti l’anno, la Cipra (Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi) valuta 100 milioni, che nelle stagioni di punta significa quasi dieci volte il numero dei residenti. L’indotto è intorno ai 50 miliardi di euro annui.
Intraprendendo un rapido viaggio virtuale attraverso le Alpi italiane che punti lo sguardo sull’industria “del forestiero”, proviamo a verificare lo stato dell’arte. Le Alpi Liguri mostrano una ridotta vocazione turistica, con alcuni casi – infelice retaggio di scelte a senso unico – di sfruttamento intensivo (Frabosa, Artesina), l’antica stazione invernale di Limone Piemonte a breve distanza dal Colle di Tenda, il Parco regionale della Valle Pesio che unito a quello delle Alpi Marittime promuove un incoraggiante sviluppo di iniziative escursionistiche e naturalistiche. Più a nord ci si addentra nelle valli del Cuneese e del Saluzzese, in parte protette dal recentissimo Parco del Monviso, in parte nobilitate dalla cima del Re di Pietra, tutte penalizzate dallo spopolamento. Sono i luoghi ideali per un turismo leggero, ecologico, ma accanto a progetti innovativi (la pecora sambucana della Valle Stura, le ristrutturazioni di Chianale e Ostana, i sentieri e le locande occitane della Val Maira, conclamato esempio di turismo sostenibile alpino) spuntano vecchie “tentazioni” come gli impianti sciistici di Sampeyre. Più a nord, oltre l’isola religiosa e culturale delle terre valdesi, le vallate torinesi sono tradizionale meta del turismo metropolitano, con lo sfruttamento intensivo della Valle di Susa (oltre 25.000 seconde case nell’alta valle: l’85 per cento sul totale delle abitazioni) e la conseguente sottrazione di identità culturale. Le valli olimpiche offrono un grande carosello sciistico, spesso venduto all’estero come “la montagna piemontese” anche se si tratta solo di un piccolo segmento. Segue un’altalena di situazioni nelle valli di Lanzo e dell’Orco, un tempo territorio privilegiato delle villeggiature torinesi e meta dei Savoia a Ceresole Reale, con il grande polmone verde del Gran Paradiso che attrae circa un milione e mezzo di visitatori annui, soprattutto sul versante valdostano del parco dove si registra una significativa ripresa di iniziative ispirate a natura e cultura.
La Valle d’Aosta dispone di bellezze naturali ineguagliabili e di ingenti mezzi economici, almeno fino agli anni recenti, ma talvolta paga un ritardo di cultura e programmazione turistica. Si distinguono le classiche stazioni d’élite come Courmayeur, dove il turismo convive con i transiti pesanti sotto il Monte Bianco, e la più popolare Valtournenche-Cervinia, con 5000 seconde case non occupate (contro le 850 abitate dai residenti) e un assalto di decine di migliaia di sciatori ogni domenica sulle magnifiche piste di sci. Ci sono le valli a vocazione ambientale ed escursionistica (Cogne, innanzitutto, poi Valsavarenche, Rhêmes, il Parco del Mont Avic e soprattutto la Valpelline, esempio virtuoso di turismo dolce) e i comprensori misti (sci, natura e tradizione) ai piedi del Monte Rosa, tra i rascard della Valle d’Ayas e le case monumentali della Valle del Lys.
Gressoney, Alagna e Macugnaga puntano con mezzi diversi sulla residua cultura walser, conservata anche nei villaggi dell’Ossola fino all’alta Val Formazza. La configurazione geologica non ha consentito una cieca speculazione sciistica e immobiliare, e la gente cerca una vacanza diversa: silenzio, ospitalità, un po’ di fatica (anche da parte degli operatori). Dopo la “bassa” del Lago Maggiore, arricchita da zone wilderness come il Parco nazionale della Val Grande o il gruppo montuoso della Mesolcina, si approda in Valchiavenna e in Valtellina, località intermedie sotto tutti gli aspetti: l’alpinismo e l’escursionismo della Val Masino e del Bernina convivono con lo sci di pista di Bormio, lo sci alpinismo sulle giogaie ghiacciate dell’Ortles e l’escursionismo nelle foreste del Parco nazionale dello Stelvio (da tre a quattro milioni di visitatori l’anno, compresi i versanti trentino e sudtirolese). Mancano le risorse economiche delle valli altoatesine, ma la gente conserva radici importanti e il turismo ha una tradizione. Con molte lacune.
La fotografia dell’ospitalità si rafforza al di là dello Stelvio e del Tonale (Val Venosta, Val di Sole e Val di Non), dove l’antica cura del territorio è armonizzata con la cultura del turismo e sopporta la produzione intensiva delle mele, oggi a scala industriale. Più a sud il Parco naturale Adamello-Brenta attira un numero considerevole di visitatori, che in parte confluiscono sulle attrattive mondane di Madonna di Campiglio, una stazione che sta tentando di ridefinirsi. Sudtirolo e Trentino offrono la maggior scelta di infrastrutture (soprattutto alberghiere), i servizi più accurati e un ambiente di eccezionale ricchezza, ma devono reggere l’assalto di milioni di turisti italiani e stranieri. Nelle settimane più affollate le Dolomiti sono vicine al collasso, con oltre quindici milioni di presenze annue, quasi 50.000 seconde case (soprattutto nell’area trentina: Val di Sole, Val di Fassa) e una capacità giornaliera di oltre centomila sciatori sugli impianti invernali.
L’emergenza del troppo pieno si smorza fin eccessivamente nelle valli del Bellunese, dal basso Cadore al Comelico, dall’Agordino allo Zoldano al Cordevole, dove il turismo ha fatto passi a macchia di leopardo, concentrandosi su alcune località come i comprensori del Civetta e di Alleghe-Livinallongo, sull’area di confine regionale ai piedi delle Pale di San Martino, sull’isola linguistica di Sappada e naturalmente sulla “divina” Cortina d’Ampezzo, ricca di suggestioni e di altrettante contraddizioni. Il Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi è un esempio di gestione aperta, con progetti pilota di indubbio valore. Altrettanto interessante, per gli incroci tra natura e cultura, il Parco naturale Paneveggio Pale di San Martino, in area trentina, dove la bellezza delle crode incontra l’incanto della foresta.
Tra le Dolomiti d’oltre Piave e le Alpi Carniche orientali si trovano situazioni simili alle Alpi Liguri e Marittime – spopolamento, incertezza, difficoltà economiche – compensate da situazioni di elevata vitalità culturale (Zahre-Sauris è stato un esempio) e da importanti realtà naturalistiche (il parco delle Dolomiti Friulane a sud ovest e le Foreste tarvisiane a nord est). La situazione si riverbera sulle Alpi Giulie, dove la morfologia impervia ha limitato, senza escluderle del tutto, le opportunità turistiche che esulano dall’escursionismo, ma ha conservato un territorio di pregio naturalistico.
Che cosa è cambiato sulle Alpi italiane negli ultimi dieci anni? Mi sembra poco dal punto di vista della concezione imprenditoriale turistica, molto da quello della domanda e moltissimo dal punto di vista climatico. In altre parole il settore stenta a registrare le mutazioni di gusto e sottovaluta il peso del riscaldamento globale, eppure il turismo si trasforma lo stesso. Già negli anni Ottanta del Novecento qualche illuminato metteva in discussione il modello intensivo del turismo montano, stigmatizzando l’invasione dei motori, le pesanti infrastrutture e l’impianto edilizio d’ispirazione urbana. La Convenzione delle Alpi del 1991 metteva in guardia sullo sviluppo insostenibile, rivalutando il patrimonio ambientale della montagna estiva e invernale. Oggi si fanno i conti con le illusioni e gli errori del passato. Grazie alla nuova consapevolezza ecologica, il turismo alpino vede un futuro precisamente nei luoghi in cui ci si è presi cura del territorio e non si è investito su un unico modello di sfruttamento, preparandosi in tal modo al cambiamento climatico, alle estati calde e alla riduzione della neve. Nella primavera del 2013 la Quarta relazione sullo Stato delle Alpi dell’Eurac di Bolzano ha confermato che «le Alpi sono tra le regioni turistiche europee più forti, ma si trovano a un bivio: l’impatto del turismo di massa sull’ambiente (l’84 per cento dei visitatori si sposta in automobile), la ‘piaga’ delle seconde case, la crisi congiunturale e l’innalzamento delle temperature che minaccia di stroncare lo sci a media quota mettono a rischio il futuro economico». Anche se gli operatori troveranno il modo di adattarsi al riscaldamento globale, e non hanno altra scelta, il turismo montano non sarà mai più quello del Novecento. Se da un lato la riduzione della neve e dei ghiacciai renderà meno attraenti molte regioni montuose e condizionerà pesantemente la pratica dello sci, si profilano straordinarie opportunità per il turismo dolce estivo e di mezza stagione, a patto che si converta l’offerta verso attività antiche e modernissime quali l’escursionismo, l’agriturismo, lo scambio e la creazione di cultura. Senza cultura finisce tutto.
Enrico Camanni