Un formicaio: questo erano le Alpi italiane di inizio Novecento. Brulicavano di persone sui versanti al sole e su quelli in ombra, dove le pendenze erano più favorevoli – ma persino abbarbicate sui pendii più ripidi e rocciosi. Erano montagne pascolate, coltivate, costruite, abitate, sfruttate fino all’ultimo centimetro utile. I boschi tagliati, le acque irregimentate, i versanti e i colli attraversati da una fitta rete di mulattiere e di sentieri.
Eravamo dappertutto. Ma non ci bastava essere al vertice della piramide ecologica, volevamo essere gli unici a occupare questo posto privilegiato: abbiamo quindi eliminato la concorrenza, cacciando fino all’estinzione i superpredatori come lupo, lince, orso (quasi estinto) ed eliminando quanti più carnivori potessimo (volpi, tassi, donnole, martore, faine, gipeti, aquile, falchi, gufi e civette) – tutti animali considerati “nocivi”. Per necessità, per fame, abbiamo messo nel carniere ogni possibile preda, provocando quasi ovunque la scomparsa di cervi, stambecchi, caprioli, cinghiali. Riassumendo: la montagna (d’estate) era un giardino con persone ovunque, greggi e mandrie per ogni dove e animali selvatici ridotti al lumicino.
Poi, nel 1921, il colpo di scena. Si racconta che proprio in quell’anno sia stato ucciso l’ultimo lupo delle Alpi Occidentali. Quello che è sicuro è che a partire da quello stesso anno, per una curiosa coincidenza, succede quello che nessuno si sarebbe mai aspettato: ce ne andiamo. E lo facciamo in massa, in fretta. A partire dal censimento del 1921, la popolazione delle Alpi italiane crolla un po’ dappertutto. È un precipitare di persone a valle, un’emorragia ancora in corso, drastica in particolare agli estremi, occidentale e orientale. Altrove, come in Trentino e in Alto Adige, la popolazione rimane più legata alla Heimat, alla terra. Più in generale, dovunque sono state abbandonate le terre alte più difficili da raggiungere, quei posti dove la terra rendeva meno e l’oro bianco dello sci non ha rimpiazzato per tempo l’oro bianco del latte. Non più coltivata, non più pascolata, la montagna-giardino si ricopre silenziosamente di boschi e diventa in molti luoghi, in meno di un secolo, una giungla verde disabitata. Quella che conosciamo oggi.
Arbusti e alberi avanzano, e nel secondo dopoguerra i boschi vengono ripopolati di erbivori utili per la caccia, che si sono riprodotti e diffusi. Attenzione: perché è qui che si crea la confusione fra ripopolamento e ritorno naturale. Il cinghiale, il cervo, il capriolo, il daino – estinti su gran parte dell’arco alpino – sono stati immessi prevalentemente a scopo venatorio. Lo stambecco è salvato per volontà di Carlo Felice di Savoia e, successivamente, coppie di stambecchi del Gran Paradiso sono state riportate in varie zone delle Alpi (sì, tutti gli stambecchi delle Alpi sono discendenti degli stambecchi del GranPa e sono quindi tutti parenti). La lince e il gipeto, scomparsi sulle Alpi, sono stati reintrodotti perché considerati importanti tasselli mancanti dell’ecosistema alpino. Altre specie localmente non sono mai scomparse del tutto, come il camoscio o l’orso, sopravvissuto nel solo Trentino occidentale. Per la popolazione di orso bruno – i trentini lo sanno bene – è stata determinante la scelta di introdurre degli individui per salvare la specie dall’estinzione. Oggi gli orsi sono aumentati, l’accettazione sociale è diminuita.
Qualcun altro, infine, era scomparso del tutto dalle Alpi e ha gradualmente riconquistato i territori perduti in modo del tutto naturale, come il lupo. La sua è l’avventura più impressionante, perché in quarant’anni, gli ultimi lupi sopravvissuti all’estinzione nell’Appennino centro-meridionale, hanno dato il via alla riconquista prima degli Appennini e quindi delle Alpi, dove i loro pronipoti sono tornati dopo vent’anni, all’inizio degli anni ’90.
Protetti dalla legge italiana e internazionale, talvolta supportati da scelte politiche locali, i selvatici hanno recuperato gli spazi perduti. Alcuni spopolati. Altri mica tanto.
Si può convivere con i selvatici oggi, dove la montagna è più antropizzata? È un dubbio solo umano: i selvatici non si formalizzano, ci sopportano, sono tolleranti – loro. Immaginiamo una valle lunga 80 chilometri, abitata da 90.000 persone, percorsa da una strada statale di interesse internazionale, una provinciale, un’autostrada, una ferrovia e minacciata da una linea ad alta velocità… esiste per davvero ed è la Val di Susa: solo qui, vivono più lupi di quanti ce ne sono in tutta la Provincia di Bolzano. I primi sono arrivati vent’anni fa e non hanno ancora trovato nessun buon motivo per andarsene.
Una domanda interessante è: perché la presenza dei grandi carnivori dà così fastidio, perché parlare di lupi e orsi (soprattutto) porta subito ad alzare i toni del discorso, a barricarsi all’interno di ottuse tifoserie a tenuta stagna, ad accantonare la logica in favore della pancia – ben al di là dei danni oggettivi e concreti che i predatori causano?
In primo luogo c’è il fastidio ovvio, causato dai danni reali all’allevamento di montagna. Perdite oggettive, quantificabili, per lo più indennizzate almeno in parte e in buona misura evitabili – a prezzo di fatiche e costi da parte degli allevatori che devono in qualche modo essere compensati. Ma poi c’è il fastidio molto meno scontato e molto più misterioso generato dalla macchina dell’immaginario che inizia a lavorare dentro alla nostra testa quando un grande carnivoro fa capolino nei dintorni di casa nostra. Gli esseri umani sono animali simbolici che interpretano la realtà attraverso le lenti della loro cultura: quando guardiamo un lupo o un orso, vediamo tutte le cose che abbiamo ricamato loro addosso nei secoli. Vuol dire che indossiamo senza saperlo lenti deformanti, attraverso le quali vediamo i predatori più grossi, più brutti, più pericolosi. Fateci caso: pochi conoscono il lupo e l’orso, ma ciascuno ha un’opinione in merito. Il lupo e l’orso sono argomenti da bar: l’Italia all’ora dell’aperitivo in molte valli si trasforma in un paese di allenatori di calcio, di primi ministri e di zoologi. Alcuni giornalisti sfruttano il fascino dei predatori per accalappiare i lettori seducendoli con pezzi di cronaca nera, dove i selvatici sono trattati come criminali, come assassini. Nemmeno ai politici in campagna elettorale è sfuggita la capacità di utilizzare i grandi carnivori per ricavarne consenso in campagna elettorale – con pochi scrupoli per la realtà dei fatti.
I grandi carnivori sono tornati sulle Alpi perché abbiamo fatto loro spazio, abbandonando in massa le montagne per le città e allargando i nostri orizzonti fino a capire che un ecosistema integro di tutte le sue componenti – superpredatori inclusi – è un ecosistema più sano. Ma la lezione che ci insegnano i grandi carnivori è più profonda ed è lì che si nasconde la ragione profonda del senso di disagio che generano: incrinano la nostra onnipotenza, la presunzione di poter essere sicuri e padroni dappertutto, l’idea di essere al di là e al di sopra del resto del mondo naturale. Ritornando all’oggi e immaginando un futuro per le Alpi, sapremo accettare la sfida del limite che i grandi carnivori sono venuti a lanciare proprio nel mezzo di queste frequentatissime montagne?
Irene Borgna