In principio erano le sagre o le feste di paese ad animare la vita sociale della montagna, a contribuire a quel sentimento di appartenenza al luogo così specifico della condizione montana. In tempi più recenti invece, esse sono state affiancate da festival, eventi culturali, spettacoli, esposizioni temporanee o itineranti, così come da competizioni sportive. Sempre più frequentemente questi eventi socioculturali temporanei affollano le Alpi da est a ovest e da nord a sud, ogni regione offre un ricco palinsesto di possibilità creative e ‘ricreative’ lungo tutto l’arco dell’anno, anche se per ovvie ragioni climatiche, l’estate è dove si concentra maggiormente l’offerta. Si può fotografare la montagna contemporanea come un ideale proscenio alle varie forme di rappresentazione, una sorta di tòpos culturale estivo in grado di sollecitare un immaginario di ampia portata.

Se una volta veniva fatta salire al monte una cultura tutto sommato cittadina, forse relegando al folklore quella locale, ora si sta fortunatamente affermando una cultura “di montagna” site-specific, con una propria identità ed una propria autonomia.
A partire da un caso specifico, quello del festival di Topolò, Stazione di Topolò_Postaja Topolove, in Friuli-Venezia Giulia, è mia intenzione formulare una riflessione circa le modalità di utilizzo dello spazio fisico che vengono messe in atto da questi eventi, e cosa questi lascino dietro di sé una volta terminati. La cultura site-specific molto spesso si intreccia col tema dell’abbandono: questi eventi nascono proprio col tentativo di contrastare in primo luogo la dimenticanza, ovvero l’abbandono della memoria, l’oblio. Ma in secondo luogo, riescono questi eventi a preservare la dimensione fisica/materiale dei luoghi? Ed è per la seconda domanda che descrivere il Caso di Topolò è interessante.

Topolò è un piccolo paese delle Valli del Natisone in Friuli-VeneziaGiulia, al confine tra l’Italia e la Slovenia, adagiato su ripido crinale a circa 600 metri. Si inserisce in un contesto complesso, sia da un punto di vista geografico che orografico, ma soprattutto da un punto di vista storico-culturale: in questi posti il Novecento non è stato un secolo breve, qui ancora aleggiano gli echi di tutte le guerre e di ciò che ne consegue.
A metà degli anni ’90, in netto anticipo sulle mode venture, un trio, composto da due architetti e un curatore d’arte, si interrogò su cosa si sarebbe potuto fare per portare un’azione pacificante ad un trauma di cui essenzialmente si è persa la natura, per dirla con Zanzotto. Uno di questi architetti, Renzo Rucli, aveva già compiuto uno studio tipologico e storico dell’architettura vernacolare locale, definendone con precisione i caratteri specifici. Ma tornando al trio, la risposta che trovarono fu nell’esperienza artistica inventando il festival Stazione Topolò, e chiamarono solo quegli artisti che sanno dialogare in maniera attenta, umile e silenziosa col paesaggio e con la storia locale. Le situazioni espositive si collocano all’interno degli edifici, spesso in abbandono, nei loro spazi interstiziali, e un po’ più lontano dentro al paesaggio che circonda il paese. Anno dopo anno il festival si ripete e si rinnova, allarga la sua rete, si fissano nella trama del paese dei luoghi fissi come la Pinacoteca, la Posta, l’ambasciata di Svezia che vengono restaurati e messi a disposizione del pubblico. Contemporaneamente si sedimenta nelle persone un senso di attaccamento così radicato e radicale che fa sì che più persone prendano a cuore quest’iniziativa. Alcuni decidono di credere a questo progetto investendo su primi edifici ricettivi seguendo nel restauro le indicazioni dell’architetto Rucli e altri, giovani specialmente, eleggono a residenza proprio quel luogo apparentemente lontano dall’urbanesimo contemporaneo. Non essendoci le strutture ed infrastrutture adeguate al vivere attuale, così l’intero paese si attrezza, si mobilita, si aprono le porte e viene usato tutto come casa. Succede che se conosci Dora puoi entrare a casa sua a scaldarti e magari a mangiare una fetta di torta di cioccolato. Oppure se conosci Vida, puoi usare il suo bagno se a casa tua non c’è. Se vuoi vedere un film in compagnia usi la parete bianca che fa da sfondo al giardino del vicino, e così via.
Dall’anno prossimo a Topolò arriveranno due famiglie con bambini al seguito, e ci sarà una nuova storia da raccontare. Fin qua quest’esperienza mostra che senz’altro è possibile innescare dei processi di “ritorno” spontaneo scaturiti da eventi effimeri quali i festival, ma che una visione progettuale di medio lungo termine sul futuro è necessaria, e che più è durevole quanto più affonda nel passato specifico di ogni luogo, che va studiato, trascritto e vissuto. Una montagna quindi capace di generare un’identità propria, forte, precisa e locale esiste, ed è possibile replicarla. Questa montagna è potenzialmente in grado di occupare un posto che una volta occupavano le varie specializzazione produttive locali: «In montagna non si può consumare nulla, ma si può produrre molto» ci dice Gianluca D’incà Levis, curatore di Dolomiti Contemporanee, un’altra esperienza che meriterà di essere raccontata, ma che nella sua sintesi esplica bene quanto detto finora.
Margherita Valcanover

Info: www.stazioneditopolo.it