La tempesta Vaia ha lasciato cicatrici profonde. Evidenti nei nostri boschi: ettari e ettari di foreste schiantati in poche ore: oltre 8 milioni di metri cubi di legname a terra. Altre ferite sono rimaste dentro di noi, nelle persone sensibili, nelle emozioni provate in presenza dell’evento: inatteso. Siamo stati colpiti in profondità perché impreparati, tutti. Istituzioni e cittadini, mondo scientifico e imprenditoria del settore, chi era preposto alla coltivazione del territorio, alpeggi e foreste. Ci siamo trovati impreparati perché abbiamo perso il senso del limite, l’imprinting che da sempre la montagna ha insegnato all’uomo.
L’attuale emergenza ci obbliga, da subito, a guardare al domani muniti di tre focali strategiche: i cambiamenti climatici in atto, il valore delle foreste alpine, il significato strategico delle montagne in Italia.
La domanda oggi è: a emergenze tanto complesse come rispondere? Non certo con la passività, ma con il coraggio, in modo opposto a quanto abbiamo fatto fino a ieri. E allora l’ambientalismo italiano ha subito proposto una agenda di interventi, che qualora recepita, creerà lavoro, sviluppo e specialmente innovazione nella gestione delle foreste alpine. Cogliamo dunque questa opportunità, da esportare anche fuori dai territori colpiti. Per cominciare si dovrebbe dare vita a un piano straordinario di messa in sicurezza idrogeologica della montagna italiana, come aveva fatto l’impero austro-ungarico dopo le disastrose alluvioni del 1882 e 1885. La gestione delle foreste, tutte, a ceduo come a fustaia, latifoglie come conifere, va rivista investendo ovunque in una selvicoltura veramente naturalistica che offra meno attenzioni alle esigenze del mercato e sia capace di investire in una visione che offra valore alle foreste vetuste, alle zone di protezione (da potenziare), ai monumenti vegetali letti anche oltre la singola pianta, valutando il valore di associazioni forestali.
Perché simili passaggi? Perché le foreste sono l’ecosistema più strutturato e resiliente delle nostre montagne, perché permettono il dialogo con altre risorse strategiche, vitali per noi umani, come l’acqua, la salubrità dell’aria, l’assorbimento dell’anidride carbonica, la sicurezza. Offrono ricreazione e svago, ci illuminano con paesaggi unici, spazi e piante che ci stupiscono, perché rimangono un laboratorio di studio per la ricerca scientifica e l’innovazione.
Il nuovo piano strategico delle foreste italiane dovrebbe da subito creare lavoro stabile in bosco e nell’alpeggio attraverso una cura continua del territorio. Tanti piccoli interventi di manutenzione, prevenzione: in montagna non servono grandi opere, anzi, sono le infrastrutture pesanti, invasive a provocare molti dei dissesti idrogeologici. Dovremmo investire nel recupero delle culture perdute del passato, investire nei parchi naturali portandoli a smettere la veste di marketing per assumere, con coraggio e operatività concrete, quella della conservzione, della incentivazione della biodiversità, anche nelle vaste aree di Rete Natura 2000. Ci serve un piano a sostego della scienza e della ricerca, seguendo per decenni le varie fasi della ricostituzione dei boschi abbattuti (mappatura degli attacchi di parassiti, muffe funghi e animali, andamento della rinnovazione naturale, danneggiamento della rinnovazione, i seguenti necessari diradamenti selettivi, lo studio dei suoli e soprassuoli, ecc.). Dobbiamo ricostruire, in tempi brevissimi, la mappa dei rischi per mettere in sicurezza i territori sconvolti ed evitare, attraverso l’istituto della deroga, di costruire laddove vi sono pericoli evidenti.
Un primo segnale politico dovrebbe essere una scelta drastica sul blocco del consumo di suolo montano, in modo da evitare la perdita in modo irreversibile di patrimoni inestimabili di biodiversità. Ci serve poi un piano che riporti qualità nell’attuale approssimativa gestione degli alpeggi, sempre più degradati, un piano che permetta la rigenerazione dei suoli e soprassuoli forestali, specie nei boschi di conifere. Il tema della fertilità dei suoli è da sempre trascurato nel nostro paese. Non va infine dimenticata una rinnovata attenzione che investa nella conoscenza.
Turtti insieme dovremmo comprendere quanto accaduto per ripartire con la formazione di tutti gli attori delle economie della montagna, anche degli operatori turistici, oltre che dei nostri ospiti. Ma perché tutto questo si trasformi, e per evitare che ognuno segua una propria traccia priva di condivisione e approfondimento, è necessaria una regia. Né centralizzata né autoritaria, ma tenuta a rispondere alle mille diversità del territorio alpino e montano italiano, a incredibili complessità. Solo in questo modo riusciremo a diffondere sul territorio mille azioni con mille protagonisti. Dovrà essere una regia autorevole e decentrata, capace e umile nell’ascoltare, forte nell’indirizzare, ricca di risorse umane ed economiche, capace di dare risposte a breve termine ai territori definiti marginali, come lo sono quelli di gran parte delle montagne italiane.
Ecco il percorso che dovrebbe averci indicato la tempesta Vaia: un percorso strutturato su un nuovo impegno e sul lavoro collettivo.
Luigi Casanova