Il paesaggio è da vivere, esso incarna valori collettivi e non può in nessun modo essere ridotto ad un mosaico di interessi individuali ognuno dei quali spesso appare slegato dall’altro. Così Salvatore Settis in Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili (Einaudi, 2017), suggerisce di pensare il paesaggio come “teatro della democrazia”: il paesaggio, quello “da vivere”, e non solo “da guardare” casomai seduti su una panchina in cima ad una collina in una bella giornata di sole, è connesso con un orizzonte di diritti, con una dimensione sociale e comunitaria della cittadinanza.
Il paesaggio è un concetto inclusive che contiene dentro di sé molti significati differenti. Potremmo dire che è soprattutto un concetto di carattere politico, nel senso che si afferma come spazio relazionale, di prossimità, di coinvolgimento diretto, all’interno del quale le persone possono conversare, dialogare, negoziare, confliggere semplicemente perché sono interessate ad esso, perché oggi più che mai riconoscono un legame tra il paesaggio e la qualità della vita. È per questa sua natura che il paesaggio ritenuto prima essere un “bene culturale” è entrato nella sfera dei “beni politici” dalla porta principale ossia quella dei “beni comuni”, come ha scritto efficacemente Paolo Castelnovi sul Giornale delle Fondazioni (“La difficile staffetta tra paesaggio e cultura”, febbraio 2018).

Il paesaggio, che la Convenzione Europea intende come “spazio di vita”, è un bene comune nel momento in cui ne viene riconosciuto il valore da parte di una popolazione che si interroga e decide su come partecipare alla sua conservazione e alla sua trasformazione. La Convenzione Europea, assumendo la percezione sociale come fattore fondativo, indica che spetta innanzitutto ai cittadini rivendicare appieno il paesaggio quale bene comune. Il paesaggio non invoca solo un passivo diritto di fruizione ma richiede l’esercizio della responsabilità individuale e collettiva. L’idea di paesaggio come bene comune trova fondamento, quindi, nella dimensione dei processi e delle pratiche poste in atto dalle collettività per la sua gestione, per la sua fruizione, per la sua trasformazione. I beni comuni costituiscono da un alto il fondamento della democrazia e nello stesso tempo agiscono come catalizzatori dello sviluppo civile. Ecco quindi il legame con la cittadinanza capace di cogliere il nesso che lega tutti i beni comuni tra loro e con l’universo dei diritti. Perché la cura del paesaggio e il rispetto dei diritti fondamentali del cittadino sono strettamente interdipendenti e richiedono nuove forme di alleanze di solidarietà civile.
Le responsabilità connesse con la tutela e la valorizzazione di un bene comune richiamano la necessità di un’azione individuale e collettiva, di riappropriazione, di riconquista di un pieno diritto di cittadinanza. Un esempio straordinario in questa direzione arriva dalle Alpi e dalla lunga esperienza di gestione dei beni collettivi. Il paesaggio alpino, infatti, è un segno visibile di una lunga tradizione di autogoverno, che affonda le radici storiche nel medioevo, centrata sulla gestione delle terre comuni sulla base del “diritto regoliero”. Una modalità collettiva di “possedere”, che coinvolge una comunità di proprietari, riveste un’importanza fondamentale per un’organizzazione territoriale attenta alla cura delle risorse naturali (quali acqua, legno, boschi, pascoli, pesca) e che ha ricadute importanti sulla costruzione del paesaggio. Le forme di autogoverno, oltre ai risvolti in termini economici e ambientali, hanno rafforzato in alcuni luoghi delle Alpi il sentimento di appartenenza al territorio e di responsabilità nella gestione delle risorse. La capacità di amministrare il capitale naturale non riproducibile, garantendo un uso duraturo delle risorse, si è accompagnata alla trasmissione di un insieme di valori che mentre definiscono la modalità collettiva di gestione alimentano una cultura condivisa e partecipata del territorio e del paesaggio.

“Regole”, “Statuti”, “Vicinie”, “Consorterie”, “Patriziati”, “Comunità autonome” sono esperienze di gestione diffuse in tutto l’arco alpino dalle Hautes-Alpes al Piemonte, dalla Valle d’Aosta al Tirolo, dal Ticino alla Slovenia, dalle Dolomiti occidentali del Trentino a quelle orientali dell’Ampezzano. Annibale Salsa, con un lungo lavoro antropologico e storico, ha segnalato in questi anni le relazioni tra le forme di autogoverno e la costruzione dei paesaggi alpini sostenendo quella “terza via” tra la burocrazia del centralismo statale e il liberismo selvaggio, per la tutela e l’attenta gestione del capitale naturale delle terre alte. Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia nel 2009, ha sostenuto l’efficienza e la sostenibilità di soluzioni alternative alla “privatizzazione” e all’intervento pubblico nella gestione dei beni comuni guardando anche alle esperienze maturate nelle Alpi (Governare i beni collettivi, Marsilio, 2006). L’esperienza dei beni collettivi di diritto privato è una grande lezione che può aiutarci a costruire una cultura del paesaggio e della vivibilità in un orizzonte di partecipazione e cittadinanza attiva.
Gianluca Cepollaro, Direttore step-Scuola per il governo del territorio e del paesaggio, tsm-Trentino School of Management

Info: step.tsm.tn.it