Dalla finestra accanto alla mia scrivania vedo un’unica montagna, tra i tetti di Torino: il Monviso, dove tanto tempo fa avvenne la mia iniziazione alle terre alte. E fu subito amore. Quarant’anni dopo sono più credente che praticante degli sport invernali, ma mi permetto di dire la mia non solo per una lunga esperienza di giornalista ambientale. La mia generazione infatti ha vissuto la certezza della neve, le mezze stagioni e i bigi e freddi inverni di qualche decennio fa. Nell’antropocene facciamo i conti con il cambiamento climatico, processo al quale possiamo rispondere solo con adattamento e mitigazione, magari aggiornando anche il linguaggio: oggi ha più senso dire “è una bella giornata: piove”, oppure “nevica”.
Assuefatti all’emergenza, fa notizia per poche ore il fatto che stiamo vivendo l’inverno più caldo tra i più caldi da quando si raccolgono sistematicamente i dati meteo, cioè all’incirca dalla metà dell’800. E alla faccia del cambiamento climatico, la febbre della neve artificiale cresce a pieno ritmo nutrita da copiosi finanziamenti pubblici. Tutti noi, insomma, contribuiamo a mantenere candide le piste da sci, sport sempre più elitario: Dolomiti Superski quest’anno ha superato la soglia “psicologica” dei 60 euro per il giornaliero.
La neve artificiale è il prodotto finale di impianti industriali: non solo cannoni che processano un mix di acqua e aria compresse. Servono energia e chilometri di tubazioni interrate, torri di raffreddamento ed edifici di servizio che imbruttiscono il paesaggio e occupano permanentemente il territorio. L’innevamento artificiale non riguarda solo i grandi comprensori, quelli che avranno chances di sopravvivere se si avvereranno le previsioni dei climatologi: con il trend attuale, entro il 2050 è prevista la scomparsa della neve naturale al di sotto dei 1200 metri, un quarto delle stazioni alpine italiane.
Servono fino a 45mila euro all’anno per innevare un chilometro di pista, ma è difficile calcolare con precisione l’entità delle sovvenzioni, perché spesso rientrano in “pacchetti” che includono l’ammodernamento degli impianti di risalita, la sicurezza delle piste e la costruzione di bacini di accumulo. Una ricognizione in merito è stata fatta da Dislivelli nel 2015. Il WWF allora affermava che il 70 per cento delle piste da discesa in Italia era innevato con i cannoni. Ma è un dato da aggiornare, oggi si sfiora l’80 per cento.
In Italia, la scienza del clima non dialoga con le istituzioni. Un esempio è il protocollo siglato nel 2016 tra le Regioni Emilia-Romagna e Toscana e la presidenza del Consiglio dei ministri. Un finanziamento a fondo perduto di 20 milioni di euro per costruire un nuovo impianto di risalita verso il lago Scaffaiolo e la creazione di uno ski resort tra il Monte Cimone, il Corno alle Scale e l’Abetone-Cutigliano sull’Appennino tosco-emiliano. Pochi mesi prima l’Arpa dell’Emilia Romagna aveva certificato che nei tre Comuni emiliani coinvolti le temperature medie si sono già innalzate di oltre 1 grado.
In molte realtà italiane gli impianti di risalita sono società partecipate da Regioni, Province, comunità montane o comuni. Succede in Trentino, in Alto Adige, in Valle d’Aosta, mentre in Piemonte nel 2013 la Regione ha trasferito ai Comuni dell’alta Valle di Susa la proprietà degli impianti delle Olimpiadi 2006. La Deliberazione della Giunta regionale del 3 agosto 2017 ha destinato, per le stagioni 2017/2018 e 2018/2019, 7,2 milioni per l’innevamento artificiale nei Comuni olimpici. Contributi a fondo perduto per sostenere le spese energetiche, l’approvvigionamento idrico, la manutenzione e la custodia degli impianti, il personale addetto alla produzione di neve. Nel documento si chiarisce anche l’entità del contributo: 2,3 euro per ogni metro cubo di neve artificiale prodotta. Stessa politica sugli Appennini. Nel 2017 la Regione Abruzzo ha stanziato cinquanta milioni per sostenere lo sci e ampliare l’innevamento artificiale a Roccaraso, Ovindoli, Prati di Tivo, Passolanciano, Majelletta, Campo di Giove e Cappadocia. La regione Abruzzo inoltre ha stanziato 22 milioni per due cabinovie a Castel di Sangro. Lavori per quasi 6 milioni dei fondi nazionali per le aree sottoutilizzate hanno permesso al già imponente sistema di innevamento artificiale del comprensorio dell’Alto Sangro di diventare il più grande d’Italia.
La Regione Piemonte con la legge di assestamento di bilancio 2018-20 ha approvato il finanziamento di 6 milioni per realizzare 22 nuovi invasi artificiali e stoccare 650mila metri cubi d’acqua e il 7 dicembre 2018 è stato approvato lo stanziamento di 1,144 milioni per potenziare l’innevamento artificiale al Bric Colmé, nel comune di Roburent e sul Monte Alpet, quota massima 1611 metri. Nuovi impianti sono previsti anche in altre stazioni del Cuneese, come Sampeyre, in Val Varaita, e richieste di fondi arrivano da tutte le province piemontesi. La Prato Nevoso SPA invece userà soldi privati per ammodernare gli impianti di risalita ma dirotterà i soldi stanziati dalla Regione – ovvero 3 milioni e 250 mila euro – sulla neve artificiale. In Val d’Aosta è stato finanziato con 5,2 milioni un bacino all’Alpe Forca, in Val d’Ayas. La questione degli invasi artificiali è particolarmente sentita in Trentino, dove sono previsti o già in costruzione invasi al passo Feudo e Latemar, al Sella, a Campiglio, Folgarida, Panarotta, al Tonale.
Con un metro cubo d’acqua si producono circa due metri cubi di neve artificiale. Condizione essenziale è la temperatura, che dev’essere tra i -2 e i -12 gradi, con un tasso di umidità intorno al 20%. Almeno, così succede con i cannoni da neve convenzionali. La start up NeveXN (si legge Neve Perenne) ha infatti inventato un sistema per produrre neve tra 0 e i +15 gradi, e c’è da chiedersi quanto possa durare a queste temperature. Il brevetto è stato industrializzato dal colosso degli impianti di risalita Leitner, e ha ricevuto dall’Europa un finanziamento di 1,5 milioni di euro nell’ambito del programma Horizon 2020. La differenza rispetto ai cannoni è sostanziale, perché la neve è prodotta all’interno di una macchina e l’energia per la trasformazione può essere ricavata da fonti rinnovabili. E’ bastato questo per parlare di neve “green” e di sostenibilità ambientale. Le macchine sono già in azione al passo dello Stelvio, ma anche in piccole stazioni, come il comprensorio di Monte Pora, nel bergamasco, dove sono comparse 10 torri di raffreddamento che si aggiungono a 50 cannoni e 10 aste sparaneve che utilizzano l’acqua di due bacini artificiali. Ma quando la neve artificiale si scioglie, che succede ai suoli, ai pascoli? Sui pendii innevati artificialmente è stato riscontrato un ritardo dell’inizio dell’attività vegetativa, fino a 20-25 giorni rispetto alla media. La neve sparata è più densa e contiene circa il 15-20 per cento d’acqua in più: di conseguenza il manto è più pesante e ostacola la traspirazione del suolo sottostante, che può incorrere in un processo di degrado. Si possono creare le condizioni per la crescita di specie che richiedono più acqua rispetto alle piante autoctone, alterando quindi la biodiversità dell’ecosistema originario.
La montagna invernale è ancora e soprattutto un prodotto da adeguare alle esigenze dei cittadini, che la scelgono in virtù delle emozioni che suscita il paesaggio imbiancato. E’ quanto si legge nel rapporto Skipass panorama turismo, l’osservatorio sugli sport e il turismo invernale promosso da ModenaFiere. Secondo l’ultima edizione, il turismo montano va alla grande: oltre il 66% degli italiani desidera un soggiorno in montagna. A patto che sia bianca, perché, si legge nel rapporto, il suo valore si manifesta solo in un ambiente innevato”.
Concetto ribadito dal claim della campagna pubblicitaria lanciata a fine 2018 dalla Regione Piemonte: all you need is snow, “tutto ciò che serve è la neve”. Vera o finta che sia, e a tutti i costi
Claudia Apostolo (Legambiente Alpi)