Ci siamo. Ormai il Re è quasi nudo. E non è una bella notizia per la montagna, statene pur certi. Fatto sta che oggi “ogni euro investito nell’indotto neve” sotto i 2000 metri non ne genera più “sei per il sistema turistico del territorio”, come dichiaravano i responsabili delle stazioni sciistiche fino a pochi anni fa, perché nel frattempo le loro realtà più a bassa quota sono tutte, chi più chi meno, entrate in crisi, e con loro l’indotto locale. Abbiamo cercato di allontanare il “mostro” finché è stato possibile, ma ora che del cambiamento climatico si legge anche sulla Gazzetta dello sport nel bar sotto casa, l’argomento non può più essere taciuto. Secondo l’ultimo rapporto dell’IPCC, il panel scientifico dell’ONU sui cambiamenti climatici, il tema del cambiamento climatico è passato infatti da una “dimensione percepita come astratta, distante, a una più immediatamente comprensibile, che pone problemi tecnici e politici nella vita quotidiana”. E allora accanto alle riflessioni sullo scioglimento della calotta polare, l’innalzamento del livello del mare o l’aumento dei fenomeni meteorologici estremi, urge pensare ai possibili scenari futuri delle stazioni sciistiche nazionali, intorno alle quali ruota l’economia di intere aree montane.
Dal punto di vista politico purtroppo, nel nostro paese, questo argomento non sembra ancora un “tema caldo”, come lo è la TAV, quota 100 o il Reddito di cittadinanza. Eppure sempre di soldi pubblici si parla. Perché il Piemonte ad esempio, una delle regioni italiane con più montagne al suo interno, tra il 2016 e il 2018 ha investito 132 milioni di euro pubblici nello strategico settore turismo e cultura, 25 dei quali per il solo sistema neve. Eppure sommando le presenze totali di turisti in regione nel 2016 e 2017 siamo a 28 milioni 911 mila totali, di cui solo (si fa per dire) 2 milioni 751 mila nella montagna invernale. Questo vuol dire che al 9,5% delle presenze totali di turisti in Piemonte è stato dedicato il 19% delle risorse pubbliche totali. Una palese iniquità, che si potrebbe forse giustificare se stessimo parlando di un settore in ascesa, mentre il comparto neve, si sa, è un settore maturo, se non tendente al declino a causa dei succitati problemi climatici. All’inerzia della politica “ad alti livelli” si contrappone il pragmatismo di amministratori locali e imprenditori della neve, direttamente investiti dal problema. Che sanno benissimo cosa gli aspetta, e si stanno muovendo per salvaguardare investimenti e territorio.
Maurizio Beria, Presidente dell’Unione Montana via Lattea, sulle montagne che furono olimpiche dell’Alta Val di Susa, in Provincia di Torino, dialoga con SpA del calibro della Sestrieres e Colomion nella ricerca di un futuro possibile per il territorio. «Premesso che l’Unione di Comuni che rappresento vive di turismo per l’80%, e che oggi il turismo sulle nostre montagne è ancora essenzialmente quello invernale legato al sistema neve, ormai il cambiamento climatico e gli scenari che si prospettano ci impongono di adeguarci». Prima cosa non verrà più investito un euro nell’indotto neve al di sotto dei 2000 metri. «Stiamo concentrando gli investimenti nel potenziare l’area sopra i 2000 anche, se ci verrà consentito, attraverso la costruzione di bacini idrici per l’innevamento artificiale». Ma al di sotto dei 2000 per ora nessun progetto di smantellamento, perché un vecchio impianto in fondo «non mangia e non beve finché non lo rinnovi – continua Beria –, poi si tratterà di capire cosa fare quando entra in revisione», procedure che costano milioni di euro. «Ciò premesso noi abbiamo chiaro che la stagione si concentra sempre più in pochi mesi, comincia dopo e finisce prima, per cui dobbiamo organizzarci per offrire un’alternativa alla neve». E a questo punto cominciano le difficoltà, perché riuscire a tenere insieme un sistema “industriale” come quello del business dello sci da discesa, capace di riempire per poche settimane all’anno 12 mila posti letto in altura, destinati in breve tempo a diventare 15 o 20 mila, con un territorio alpino che può offrire anche altro, ma che a meno di non costruire nuovi caroselli, rimane soggetto ai suoi limiti ambientali, non è facile. Eppure qualcosa va pensato.
Prima fra tutti la bicicletta, meglio se e-bike, sulla quale la valle sta investendo attraverso piste e colonnine di ricarica elettrica. E poi il turismo del motore, fuoristrada, moto e quad: perché «c’è una grande richiesta con dei numeri che non sono da trascurare – continua il Presidente -; chiaramente il settore va regolamentato, per evitare che fuoristrada e moto possano danneggiare chi cammina o pedala. Ma bisogna essere molto laici sul tema e non si può dire dei no a prescindere». Anche se, viene da pensare, è difficile poi vendere un prodotto “ibrido”, che va dall’ambiente al motore, in un mercato del turismo mondiale ormai iper settoriale. «Stesso discorso vale per la caccia, altro argomento delicato come i motori: com’è organizzata oggi non ha senso. Si tratta di vendere quel gallo forcello che oggi vale 50 euro, a 5000, a un turista che compra un pacchetto con 4 pernottamenti in albergo, l’appoggio della guardia venatoria e tutto il resto, che alla fine si porta a casa il trofeo lasciando 20 mila euro sul territorio».
C’è poi un rinnovato interesse verso la ristrutturazione delle antiche borgate, le poche rimaste in alta valle, vocate a un turismo d’elite che ricerca la quiete: «se il mercato delle seconde case è ormai morto – sentenzia Maurizio Beria – riceviamo richieste sia da fondi di investimento che da operatori stranieri che cercano aree di pregio architettonico da ristrutturare». Perché l’innalzamento della quota neve rende il colle di Sestriere più appetibile di Verbier, ma per un certo tipo di turismo “firmato”, che vuole essere coccolato in un ambiente montano di qualità, a due passi dalle piste da sci, la qualità dell’edificato va adeguata a questo target.
«In questo periodo di forte trasformazione – conclude Beria – avremmo bisogno di qualcuno in Regione che ci stesse a sentire. Il piano industriale della Sestriere spa viaggia con noi, perché loro sono i primi ad avere interesse a sviluppare la zona. Ma se si va in Regione a parlare di bacini idrici ci si trova immediatamente di fronte a delle riottosità. Per carità, magari in certi casi anche motivate, ma ci vorrebbe la possibilità di poterci ragionare. Invece si insiste sul piano di Uncem, che va a fare dei bacini idrici dove in realtà non servono a nulla, al servizio di stazioni a bassa quota destinate ineluttabilmente a riconvertirsi. E’ sbagliato investire in quella direzione, e magari sarebbe possibile agire in altre. La sensibilità dell’Ente Regione dovrebbe migliorare, perché oggi bisogna sentire la scienza non la pancia, e purtroppo neanche il cuore. Oggi bisogna agire col cervello».
Maurizio Dematteis