Quest’anno non sentiremo parlare d’altro che di Matera, capitale europea della cultura, che da avamposto di un mondo antico, interno, quasi primitivo, è diventata un posto firmato. L’operazione dimostra che viviamo al tempo del marketing, e questo lo sapevamo già, ma ci dovrebbe anche suggerire che in Italia esistono cento, mille, diecimila Matera, e sono tutto quello che abbiamo, la nostra ricchezza: nessuno ne ha tanta come noi. Una politica lungimirante dovrebbe puntare su questi straordinari luoghi in bilico tra il mito e l’abbandono, paesi fantasma che grondano bellezza e malinconia. Dovremmo resuscitarli con il turismo dolce, l’agricoltura pulita, arti antiche e rinnovate, architetture educate e comunità di giovani proiettati sul futuro, pronti a lasciare la città per inaugurare i tempi nuovi.
Alpi comprese, naturalmente, perché non c’è gran differenza tra un borgo appenninico e un villaggio interno delle Alpi “romane” (dove non si parla tedesco), nel cuore profondo delle valli e nella cosiddetta terra di mezzo, o media montagna, in luoghi sospesi tra il divertimentificio e la rovina, in cui trionfa la proprietà indivisa e i valligiani spesso invidiano la gente di città senza trovare il coraggio di andare via. Si tratta di territori dolenti, feriti, spaccati tra nostalgici anacronismi e modernismi fin troppo pervasivi e distruttivi, come ha notato Michele Serra: «La tragica colpa delle generazioni del secondo dopoguerra è stata la scissione implacabile tra sviluppo e bellezza, tra economia e anima. Come se fosse impossibile tenerle insieme. Di qui la nostalgia reazionaria per la montagna povera e abbandonata; in opposizione alla crapula “modernista” di uno sviluppo edilizio folle, volgare, invasivo, che ha arricchito molti indigeni ma impoverito i paesaggi, le culture locali, lo spirito di comunità. Trovare una sintesi convincente, e applicabile, tra sviluppo e bellezza, salverebbe l’Italia e gli italiani».

La differenza tra l’Appennino in bianco e nero e le Alpi colorate e firmate sta nella sottrazione di bellezza e nell’addizione di ricchezza che hanno “baciato” le mete degli investimenti turistici saltando le altre aree, soprattutto le terre di mezzo. Nelle montagne povere non si vive più e nelle Alpi ricche si campa soddisfacendo gli appetiti urbani. Difficile dire cosa sia peggio. Pensiamo alla rappresentazione mediatica, cioè al racconto delle Alpi contemporanee. Ragioniamo sulla fantasmagorica costruzione simbolica che accompagnerà la gara per la candidatura olimpica di Milano e Cortina, com’è già stato per quella di Torino 2006. Le neglette aree interne spariranno come la polvere sotto il tappeto, per contro trionferanno gli immaginari e gli stereotipi esterni: montagne cariche di neve al tempo del riscaldamento climatico, scenari metropolitani intrecciati con resort d’alta quota, gran spolvero di impianti e infrastrutture, lievi spolverate di tradizione e bel tempo andato. Ancora una volta si tratterà di una rappresentazione urbana a uso e consumo della città e le Alpi avranno il solito ruolo di stadio e scenografia, sulla scia del racconto, della recitazione e della messa in scena che perdurano ormai da oltre mezzo secolo e nessuno osa mettere in discussione perché svelerebbe che il re è nudo, o almeno è poco vestito.

Ma la realtà è molto diversa; la tendenza è addirittura rovesciata. I santuari del turismo alpino, in particolare le stazioni dello sci di massa, tirano avanti grazie a robuste iniezioni di soldi pubblici, costrette a fabbricare l’oro di una volta: la neve. I grandi alberghi si trasformano in residence o scompaiono. Le seconde case invecchiano come l’idea che le ha sostenute nella seconda metà del Novecento, isolandole dal tessuto dei luoghi e delle comunità. Le infrastrutture crescono senza tregua per sbaragliare la concorrenza, intaccando il patrimonio ambientale e perseguendo – per dirla con Serra – «la scissione implacabile tra sviluppo e bellezza». È chiaro che c’è ben poco di sostenibile in tutto questo, mentre sarebbe teoricamente sostenibile l’altra idea di sviluppo, o meglio di progresso, applicata ai luoghi saltati dal turismo di massa, che possiamo chiamare aree interne, media montagna, Alpi profonde – il senso non cambia – e che costituiscono ancora la gran parte del territorio alpino, affiancandolo alla montagna appenninica. Lì il problema non è la sottrazione di bellezza, ma la sottrazione di speranza.
Gli studi seri degli ultimi vent’anni e la stessa Strategia delle aree interne dimostrano che per garantire un futuro alle comunità alpine estranee al turismo di massa servono alcuni requisiti: servizi minimi vitali, viabilità accettabile, assistenza, scuole e vita di comunità. Dove ci sono questi presupposti, purtroppo rari nelle valli in cui non si parla tedesco, l’abbinamento di turismo dolce e agricoltura pulita potrebbe garantire un futuro economico e sociale. Dove non ci sono la montagna ha perso, e si è persa.
Forse è giunto il momento di sfatare alcuni miti. Il primo riguarda la quota dell’abitare: a parte i centri turistici di alta montagna, non è detto che in futuro si debba per forza abitare le terre estreme. Una montagna popolata fino a mille metri di altezza, dunque in luoghi non troppo lontani dai servizi della pianura, sarebbe già una conquista politica, sociale e ambientale, lasciando alle alte e altissime valli la fruizione turistica stagionale.
Il secondo mito riguarda la banda larga, che è fondamentale per svolgere certi mestieri ma non garantisce una vita di comunità e non crea abitanti ma eremiti tecnologici. Quindi è importante ma non basta.
Il terzo mito riguarda appunto i nuovi abitanti, o nuovi montanari, che qualcuno immagina saliranno a frotte a ripopolare le valli. Poiché montanari si diventa per una questione di scelta ma anche di dignità, cioè di sostenibilità economica e familiare, è illusorio pensare che le leggi di mercato possano creare automaticamente le giuste condizioni del vivere, spostando via via gli investimenti dalle grandi stazioni alla montagna interna. Solo la politica può farlo, e la politica non lo sta facendo. Non ci sta nemmeno pensando.
Enrico Camanni