Secondo World Food Travel Association più di due terzi dei viaggiatori acquista e porta con sé prodotti enogastronomici da consumare e regalare. L’associazione internazionale stima che il 93% dei turisti “leisure” ha partecipato ad attività enogastronomiche uniche durante un viaggio effettuato negli ultimi due anni. Secondo l’istituto di ricerca Ipsos per il 48% dei turisti cibo e vino sono tra le principali ragioni per viaggiare in Italia. Spostandoci dal turismo al largo consumo, l’istituto di ricerca Nielsen indica tra i principali trend del momento l’orientamento ai prodotti salutistici e ai prodotti tipici di alta qualità. Complice la diffusione del turismo dolce e di un approccio al consumo sempre più guidato dai valori oltre che dal prezzo, insomma, il potenziale dei prodotti tradizionali come volano di crescita delle zone montane è oggi altissimo.
Per una nicchia sempre più ampia, oltre alle modalità di preparazione e alla scelta degli ingredienti, ciò che dà un valore speciale al cibo fatto “come una volta” è il fatto di avere alle spalle una storia individuale (quella del produttore) e collettiva (quella della comunità) da cui emergano valori in cui chi acquista si possa riconoscere e, anche, sapori unici che “raccontino” il territorio di origine. La parola chiave è insomma “autenticità”, e questa nasce da quell’insieme di riferimenti familiari e significati culturali che fanno sì che uno specifico gruppo di persone si riconosca in un certo alimento. Ma proprio perché contribuisce all’identità sociale delle comunità, il patrimonio culturale legato al cibo deve essere tutelato, come indica la Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003.
Ci si trova dunque di fronte a una tensione di difficile soluzione tra la possibilità di trarre guadagno e benessere da questo patrimonio di saperi e di usi e il rischio di farne uno show a uso e consumo del mercato, che può snaturarlo, svuotarlo di senso, alienarlo dalla comunità e, di conseguenza, della sua autenticità e del suo valore. Nelle linee operative per l’applicazione della convenzione del 2003, è l’UNESCO stessa a mettere in guardia circa le possibili conseguenze negative della commercializzazione del patrimonio culturale immateriale: “È necessario prestare particolare attenzione […] per assicurare che la valorizzazione commerciale non distorca il significato e lo scopo del patrimonio culturale intangibile per la comunità”.
Trovare il giusto equilibrio tra l’autenticità dei costumi e la valorizzazione economica è l’unica via che garantisca una sostenibilità nel lungo periodo: distruggere l’autenticità tanto ricercata ed apprezzata da un certo mercato significa infatti perdere il vero valore aggiunto dei prodotti tradizionali di montagna. I ricercatori impegnati nel progetto AlpFoodway hanno mappato 114 realtà coinvolte a vario titolo nella commercializzazione del patrimonio culturale alimentare attraverso l’offerta di prodotti o esperienze per capire a che condizioni questa possa diventare un mezzo per la sua salvaguardia e la sua sopravvivenza come patrimonio vivo, non museificato e in continua evoluzione.
La sfida è riuscire a collocarsi tra due estremi entrambi controproducenti. Da un lato preclusioni ideologiche, competenze o investimenti insufficienti o l’incapacità di fare sistema possono portare a lasciarsi sfuggire delle opportunità; dall’altra l’appropriazione del patrimonio culturale da soggetti esterni e la sua gestione senza scrupoli o senza una sufficiente consapevolezza ne possono distorcere i significati, minandone il valore. Là dove si trova un equilibrio tra considerazioni culturali e commerciali, invece, il patrimonio culturale alimentare è allo stesso tempo tutelato e promosso verso l’esterno; le comunità locali beneficiano anche economicamente degli sforzi fatti per preservare e trasmettere questi elementi.
Alcuni dei primi risultati mostrano che questo obiettivo è possibile solo utilizzando un approccio di marketing collettivo incentrato sulla comunità che deve essere la protagonista delle decisioni e la beneficiaria ultima dei guadagni. Si deve fondare su una rete che comprenda cittadini, imprenditori e istituzioni disposti a unire le forze per raggiungere obiettivi comuni. In alcuni dei casi analizzati, questo ha significato creare organizzazioni che permettano di coordinare le attività, sfruttare possibili sinergie, raggiungere la massa critica necessaria per poter reclutare personale qualificato, comunicare con efficacia e proporsi come interlocutore forte verso le istituzioni, i partner commerciali e gli altri stakeholder.
Marta Geri
www.alpfoodway.eu