Ho voluto dedicare questi miei lavori a Tino Aime, compianto artista e amico che, a mio parere, più di molti altri, ha saputo cogliere l’essenza delle nostre Alpi, l’animo delle nostre genti e l’inarrestabile corrosione dei nostri territori. Io l’ho conosciuto che ero giovanissimo, in quel di Susa, in una mostra estemporanea alla quale avevamo partecipato entrambi nel lontano 1987. Egli era, a quell’epoca, già ampiamente conosciuto e stimato: un personaggio colto e raffinato che aveva fatto della rappresentazione della montagna un motivo di vita, di espressione e di lotta. Nato a Cuneo, aveva frequentato giovanissimo la Libera Accademia delle Arti di Torino sotto la guida del mitico professore Idro Colombi. Si era poi trasferito in età avanzata a Gravere, in Val di Susa, dove poi si è spento alla metà del 2017 pochissimi giorni prima dell’inaugurazione della grande mostra autobiografica a lui dedicata. Tino ha esposto in quasi tutta Europa e moltissime delle sue pitture e delle sue sculture appartengono oggi a facoltosi privati e a prestigiosi musei. E’ stato un uomo dotato di una cultura sopraffina e mancherà molto a tutti coloro che amano profondamente la montagna con i suoi silenzi e le sue leggi non scritte.

Nei miei “villages perdus” ho deliberatamente voluto eliminare tutti gli spazi, i passaggi, gli accessi, i comignoli, le scale, i balconi. Ho sigillato anche le più piccole fessure poiché questi villaggi sono stati definitivamente abbandonati e, con la loro esistenza, se n’è andata anche la primaria necessità di spazio, di comunicazione, di luce, di aria, anche solo di respiro. Il silenzio più profondo si è impossessato eternamente di questi villaggi e il solo albero esistente in mezzo a loro è totalmente secco, morto: unico testimone di una vita e di un passato che non torneranno mai più. Ho utilizzato la neve poiché essa fissa e immobilizza i paesaggi e ne esalta l’ovattato silenzio che regna sovrano in mezzo a loro. Neve vista come manto immacolato e perenne che nessun sole scioglierà più. Ho usato l’oro zecchino alla base delle costruzioni per evidenziare come questi villaggi abbiano avuto comunque nel loro passato un’esistenza prodigiosa e fattiva nella quale la vita scorreva e la procreazione era il dono più prezioso di Dio. Quest’oro è il medesimo che Melchiorre aveva portato con sé nella capanna di Betlemme, sinonimo di regalità e di unicità anche nella povertà più assoluta. I villaggi poggiano poi su una trama sottile e fitta di rami di bosco, essiccati e fissati in modo assolutamente occasionale e fortuito. Questo sostegno aleatorio e fortemente arioso sta a significare lo stato di “sospensione” nel quale si trovano i miei villaggi. Uno stato verosimilmente paragonabile ad un limbo perenne dal quale non usciranno mai. Il loro passaggio dallo stato concreto allo stato cosmico sono l’incantesimo che li imprigionerà per sempre.
Daniele Ribetto

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