Il cane, il lupo e Dio. Folco, come è nato il tuo ultimo libro?
E’ stata una gestazione molto lunga, di quasi quindici anni. Io ho girato molto le montagne in India, soprattutto l’Himalaya, dopo aver terminato degli studi che mi avevano portato verso un certo lavoro, nell’economia, e poi anche alle Nazioni Unite. Ma a un certo punto ho capito che non era quella la mia via. E allora ho passato un po’ di anni alla ricerca, in India appunto, dove tradizionalmente molti sono andati a fare quel tipo di percorso. Ho conosciuto Madre Teresa di Calcutta e ho passato poi molto tempo con alcuni asceti, che vivono nella zona dell’Himalaya.
Là ho imparato a camminare scalzo insieme a loro, a dormire all’aperto, sotto un albero vicino al fiume. Ho scoperto che c’era questo modo di vivere la natura, molto lontano dall’approccio di quelli che vanno in montagna con tutta l’attrezzatura. L’idea degli asceti è quella di fare queste cose senza niente, senza tenda, senza sacco a pelo, senza scarponi. Al massimo si concedono una sciarpa, che gli serve di notte anche come coperta, niente di più.
E quando sei ridotto a così poco, un’avventura appare dal nulla, è qualcosa di estremamente economico e accessibile a tutti. Devi trovare le risorse per affrontarla dentro te stesso, perché sei senza paracadute: non hai il cellulare per chiamare l’elicottero.
Questi asceti mi hanno colpito moltissimo, per la loro estrema semplicità e per la loro vicinanza con la natura, con la terra: per questo con loro si cammina scalzi, perché il mondo intero è un tempio. Un modo di vivere libero, che si basa sull’avere sempre meno cose, molto lontano dal mondo in cui ero cresciuto io, dove si deve averne sempre di più.
E poi mi affascinava quest’idea della provvidenza, per cui le cose alla fine arrivano, senza dover fare noi nulla. Un principio molto diverso da quanto conoscevo, qualcosa di magico, che volevo raccontare.
E così ho scritto intanto altri libri – tra cui “A piedi nudi sulla terra” – ma ancora non trovavo il modo di narrare il cuore di questa esperienza e sentivo il desiderio di parlarne senza parlare dell’India, senza essere inquadrati nel racconto “orientaleggiante”. Volevo fare un discorso universale. Parlare di quel qualcosa di superiore, che è lì per proteggerci, che ci ha dato la vita, mentre spesso pensiamo che voglia distruggerci.
Poi mi sono trovato a vivere per due anni all’Orsigna (la casa del padre, Tiziano Terzani, in alto Appennino toscano), dove la natura sta diventando ormai sempre più selvatica. Lì, correndo in montagna scalzo, mi sono imbattuto diverse volte nel lupo, perché gli arrivavo senza fare rumore alle spalle, e una volta ho persino corso a lungo dietro uno di loro, vecchio e ormai sordo, che non mi sentiva. Altri ne ho visti da vicino, incrociando il loro sguardo, che ha qualcosa di speciale, di magico, che chiunque abbia incontrato un lupo non si scorda più. Il primo lupo che ho incontrato mi ha guardato in profondità, dentro gli occhi, come per studiarmi l’anima, come se stesse pensando se valeva pena di mangiarmi oppure no. E’ uno sguardo che ti rimane dentro, che è molto diverso da quello degli altri animali, che non fissano l’uomo negli occhi. E questo sguardo mi ha ricordato la maestosità di questi poveracci, solo in apparenza tali, dell’Himalya, questi asceti, che sembrano degli straccioni e invece hanno un’estrema nobilità.
Allora ho pensato di raccontare la mia storia attraverso i lupi, i lupi e il cane, che li incontra e che cambia grazie a questo incontro. E poi il libro, in pochi mesi di lavoro su in montagna, è venuto fuori da sè.

C’è qualche rapporto tra il tuo libro e l’immaginario sul rapporto uomo-cane-lupo di un classico come “Il richiamo della foresta” di Jack London?
Da un certo punto di vista il mio approccio è opposto. Non era quello il mio punto di riferimento nel pensare la mia storia, ma semmai lo erano le favole di Esopo sugli animali e quelle indiane, che pare abbiano influenzato anche quelle occidentali.
Quella di London è la vecchia immagine del lupo, il lupo cattivo, il lupo duro. E’ la storia di un cane che segue i lupi e che impara ad ammazzare per sopravvivere, diventando il più grande degli assassini. Mentre quello del mio cane, attraverso il suo incontro coi lupi, è un abbandonarsi, è un percorso di crescita interiore più che un rafforzamento del carattere: lui non vuole uccidere. Il cane-lupo di London è un darwiniano, che segue la legge del più forte. Il mio, piuttosto, segue San Francesco e i suoi Fioretti. E’ un cane francescano, con un modo molto semplice e modesto di essere, un essere sempre “meno” degli altri, che alla fine premia.

L’Appennino in cui sei andato a vivere per un periodo della tua vita, come dicevi, torna oggi selvatico, popolato proprio dai lupi. Quanto questo lato selvatico ci può aiutare oggi a ritrovare il divino?
Può aiutarci molto. Io mi domando come possiamo essere delle “menti sovrane”, che possano comprendere la totalità delle cose, senza essere rinchiuse nel loro piccolo campo. Non basta studiare all’università ma bisogna tornare a sentirla, questa cosa enorme. Noi in Occidente abbiamo abbandonato tutte le religioni e abbiamo perso il nostro rapporto con Dio, con la divinità. A me sembra che oggi, anche per superare il conflitto tra le varie culture, si debba tornare alla cosa più universale e più semplice, che è alla base di tutto, cioè la natura. Se si parla di sole o di acqua, si spera che non si litighi…
Si deve tornare alle basi e questo è quello che io ho cercato di fare, vivendo in montagna, all’Orsigna, per due anni, con tutta la famiglia. Coi bambini piccoli, perché ci tenevo moltissimo che la loro prima maestra fosse la natura. Un esercizio per tornare a sentire il rapporto con Gaia, il mondo intorno a noi, che è come un grande essere, nella sua relazione con il fratello-padre Sole.
Sembrava un periodo assurdo, mia moglie diceva “siamo diventati tutti matti, stiamo qui tutto il giorno senza far nulla, a guardare il sole che sorge, seduti sotto un albero”.
Però poi da quell’esperienza qualcosa è venuto fuori.

Negli ultimi anni non sono stati pochi i ragazzi che, anche in Italia, hanno cercato nella natura e nella montagna una nuova forma di equilibrio, un senso più profondo e vero per la propria esistenza. Come vedi questo fenomeno?
All’Orsigna, nel nostro Appennino, dove prima vivevano più di mille persone, ora ne sono rimaste 74. Si è svuotato completamente: non c’è più il fornaio, il macellaio, la posta. Non c’è più niente. Però proprio mentre il paese stava per morire, abbiamo visto che cominciavano ad arrivare dei ragazzi, a fare domande, a guardare, a camminare. E qualcuno di questi poi rimane, prova a cambiare vita davvero. Ci sono tre o quattro famiglie nuove. Qualcuno ce l’ha fatta, altri no, perché è ancora molto difficile l’economia di montagna. Ma il desiderio c’è, anche di una vita più libera. Una vita dove si guadagna molto meno ma si spende anche molto meno. Non c’è bisogno di andare al cinema in montagna: ogni sera puoi dire “che bello!”. Ogni giorno vedi il tuo spettacolo, che è gratis.
Quando ospito i miei amici indiani, mi dicono sempre: “Ma perché non vive nessuno qui?”. Mi dicono che da noi in Appennino ci sono più alberi, l’acqua dei torrenti è più pulita, c’è meno pressione antropica rispetto a quanto accade oggi da loro. Allora penso che la ricerca tocca a noi ora farla, proprio a partire da questi luoghi, che sono tornati selvatici e si prestano a un nuovo rapporto con la natura. Per questo è importante il lupo, che è il cane che ha detto di no all’uomo, e che è disposto a una vita più difficile ma libera.
E per questo siamo anche contenti, tanti di noi, che le montagne tornino selvatiche.
Andrea Membretti (Intervista apparsa su “L’Ordine” del 1 luglio 2018)