Nello scorso mese di gennaio, Daniela Berta è stata nominata nuovo direttore del Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi” di Torino. Laureata in Storia dell’Arte con indirizzo museologico, curatrice di allestimenti e mostre e progettista di sistemi culturali territoriali, dal 2013 ha diretto il Museo Civico “Arnaldo Tazzetti” di Usseglio e dal 2015 il Museo Diffuso di Arte Sacra della Valle di Viù. La nomina di Daniela Berta viene a valle della quarantennale reggenza di Aldo Audisio, una lunga stagione segnata dal forte potenziamento delle collezioni del Museo e da molteplici iniziative culturali.
Daniela Berta, nel 2024 il Museo Nazionale della Montagna festeggerà i 150 anni dalla nascita. A questa data il Museo arriva con un patrimonio di collezioni storiche di rilievo internazionale che negli ultimi decenni si è fortemente accresciuto. Eppure negli ultimi anni il Museo sembra avere un po’ perso il proprio ruolo storico di spazio di riferimento per le persone che si occupano a diverso titolo di montagna. Certamente questa ultima fase ha visto una profonda e generale metamorfosi: sono cambiate le pratiche sportive e i modi di andare in montagna, sono scomparse tutte le testate storiche che si occupavano di Alpi, e probabilmente si stanno trasformando gli stessi significati e immaginari attribuiti socialmente al territorio montano. Cosa ne pensi? Lungo quali linee, di continuità ma anche di cambiamento, prenderà corpo la futura attività del Museo?
Il Museomontagna dovrà presentarsi al centocinquantenario con un’identità forte e un posizionamento solido sia dal punto di vista materiale – una veste allestitiva rinnovata, una maggiore connessione con il tessuto del centro cittadino di cui fa parte – sia immateriale, attraverso la costruzione di ulteriori canali e modalità di rapporto con il territorio montano piemontese e italiano e il consolidamento delle relazioni internazionali, una nuova comunicazione delle proprie attività per guadagnare visibilità, l’attuazione di pratiche di audience development per migliorare in termini quantitativi e qualitativi la partecipazione e il coinvolgimento e attirare nuovi pubblici. La pianificazione delle strategie culturali vedrà la sperimentazione di strade nuove, con lo scopo di diversificare le attività secondo un approccio interdisciplinare e inclusivo. Continueremo a fare cultura della montagna potenziando la creazione di flussi di collaborazione fattiva e scambio concreto, oltre la retorica delle reti e delle reti di reti che si è affermata in questi anni. Questo sarà il nostro modo di rispondere alle sfide poste dalla contemporaneità e stimolate dai mutamenti in corso nell’approcciare, fruire, progettare, pensare la montagna.
La tua nomina a direttrice del Museo arriva in un momento in cui le Alpi, le montagne e le aree interne italiane conoscono una rinnovata e talora inedita attenzione e centralità. Si guarda alle montagne non più solamente in termini di turismo, alpinismo o tutela dell’ambiente. Il territorio montano, di fronte alla crisi delle pianure urbanizzate, sembra assumere i contorni di uno spazio di vita dove mettere a punto nuove progettualità, ed ecco allora i recenti reinsediamenti da parte di giovani, i casi di rigenerazione a base culturale, le nuove pratiche agricole e produttive. Non credi che il Museo possa e debba diventare uno spazio di riferimento importante all’interno di questo processo, intrecciando e meticciando la storia e le culture con le innovazioni e le pratiche contemporanee?
Naturalmente sì, incrociare diversi temi e mondi afferenti alle terre alte è cruciale. Il Museo sempre più sarà una casa aperta a tutti coloro che a diverso titolo si occupano di montagna, disposta a farsi vetrina anche delle sue valli e a incubare progettualità condivise, in ragione anche del fatto che il nostro territorio di riferimento sviluppa ed esprime competenze qualificate di alto livello e sensibilità molteplici e interessanti da intercettare. Nel percorso condiviso con i nostri compagni di cordata – Club Alpino Italiano in primis – due assi prioritari sono sicuramente il dialogo con i soggetti portatori di analoghi principi ispiratori e finalità, e la capacità di incrociare la cultura alpina e quella cittadina in una scala urbano-montana che, nell’unica area metropolitana fortemente caratterizzata dalla montagna quale è Torino, necessita di essere riconfigurata.
La notizia della tua nomina ha avuto un forte riscontro sui media. Si sono sottolineati soprattutto tre aspetti: che sei una donna, che sei giovane, e le tue competenze. Poco spazio è invece stato dato ai tuoi programmi futuri. Finora abbiamo parlato del Museo in rapporto alle trasformazioni della montagna e al ruolo che potrebbe interpretare. In termini invece di progettualità culturali, e di valorizzazione del patrimonio storico, quali sono le tue riflessioni e progetti?
I due piani non sono distinti e indipendenti, ma ricchi di interconnessioni. Sappiamo bene che contribuire a immaginare e a costruire quel che sarà è oggi nella mission di ogni museo, che deve operare senza la presunzione di dare risposte e soluzioni, ma con l’ambizione di accompagnare, tramite l’interpretazione del patrimonio, alla formulazione delle domande giuste. A differenza di altri musei, il nostro tratta una materia assolutamente viva e vitale non solo ad occhi esterni, ma anche in termini di consapevolezza e dinamiche endogene. Tanto più importante è dunque per noi unire l’attenzione per il passato con la connessione al presente e l’orientamento al futuro; e l’esperienza sul campo mi dice che la cultura materiale e immateriale è una lente attraverso la quale guardare la montagna. È questa la sfida più appassionante che colgo: poter incidere positivamente tramite lo sviluppo di narrazioni e strumenti interpretativi utili. Concretamente, il Museomontagna continuerà ad arricchire le proprie eccezionali collezioni e a valorizzarle tramite esposizioni e progetti di studio tematici e con l’attuazione dell’innovazione nelle pratiche di trattamento, fruizione e promozione del patrimonio prevista da iAlp, progetto Interreg Alcotra in corso. Svilupperà attitudine a raccontare storie culturali e costruire percorsi esperienziali valorizzando a seconda dei casi la dimensione estetica ed emozionale o informativa e didattica; tenterà di agevolare la delocalizzazione di attività di ricerca scientifica e creativa in località alpine; praticherà la cultura della montagna in tutte le sue ricche accezioni, oltre i luoghi comuni e le rappresentazioni tradizionali, cercando di ampliare le proprie risorse affinché, un occhio al sentiero e un occhio alla cima, si possa affiancare la vocazione storicizzante con la visionarietà di scenari futuri.
Antonio De Rossi (professore ordinario di progettazione architettonica, direttore dell’Istituto di Architettura Montana e coordinatore del dottorato in Architettura Storia Progetto presso il Politecnico di Torino)
* Tratto da “Il giornale delle fondazioni”, titolo originale “Focus Montagna XXI secolo. La parola a Daniela Berta”.
Francamente non vedo oggi l’attenzione e la centralità della montagna, almeno nel contesto delle Alpi occidentali, come affermato dall’intervistatore. Certo la montagna oggi sarebbe guardata con più interesse da parte di molti giovani, siano essi residenti o no in territorio montano; non c’è più tutta quella voglia di andarsene (anche perché non è chi si sa dove andare), che ha caratterizzato le nuove generazioni nel corso del novecento. Tuttavia i giovani che acquisiscono un titolo di studio di livello più alto generalmente non restano; il che è un problema serio per la costruzione di una classe dirigente locale negli anni a venire. Classe dirigente che si è di molto ridotta negli ultimi decenni. Non vedo nessuna centralità della montagna nelle politiche di governo del territorio. Anzi il sistema di governo è stato distrutto; invece di modificare e potenziare le comunità montane, per renderle più efficienti, le si è sostituite con unioni costituite su base volontaristica dei comuni, con risultati deplorevoli ( per altro ampiamente previsti). Il sistema dei finanziamenti (Fondo nazionale e fondo regionale) è stato di fatto cancellato; si è incentivato il trasferimento dei dipendenti delle ex comunità montane, verso altri enti ed istituzioni. Il governo dei sistemi vallivi è oggi un simulacro di quello che era stato messo in piedi nel decennio dal 1995 al 2005. Stendiamo poi un velo pietoso sui comuni, i quali stanno agonizzando in preda a normative assurde, vincoli di ogni genere. Assistiamo a fusioni al limite dell’assurdo di questi con città di pianura, solo per arraffare subito un po’ di soldi e sparire nell’oblio in futuro, frutto di un sistema di incentivi alle fusioni, come al solito, basato non sul territorio, ma sugli abitanti. Gran parte dei comuni montani continuano a perdere popolazione come prima; i saldi demografici di valle sono meno negativi, solo per il fatto che l’emigrazione è interna, verso i comuni della prima cintura montana rispetto alla pianura circostante. A ben guardare questo interesse per la montagna ha un connotato esclusivamente cittadino, da cartolina, da fine settimana; una montagna che si immagina vincolata ad un contesto idealizzato, meta esclusiva di un turismo alla ricerca di valori naturali, da fruire appena si può; un turismo sportivo, certo, spesso dell’estremo. Una montagna in cui, diciamola tutta, contano di più il lupo ed il capriolo che il pastore e l’agricoltore. Una montagna da fotografare, da filmare, da romanzare. Finiti i partiti di massa, non si vede un politico calcare le strade di montagna, se non per le solite inaugurazioni. I dibattiti e le riunioni degli ultimi decenni del novecento sono ormai un ricordo di pochi. Il sindacato degli enti montani a livello italiano è di fatto sparito, quello piemontese resiste su una lodevole piattaforma di servizio ai territori, ma ha da tempo cessato una connotazione rivendicativa verso le istanze di governo di area più vasta, vedi regionale. Tutto ciò non è il frutto di un destino cinico e baro; dipende da fattori di livello internazionali, dall’attacco sistematico che ormai viene condotto a tutte le istanze di governo territoriali, fatta eccezione per le metropoli e le città più grandi; vedasi le leggi uscite negli ultimi anni e la riforma costituzionale propugnata da Renzi, ma dipende anche dalla debolezza della classe dirigente dei territori montani e dallo scarsissimo peso elettorale della popolazione montana. Eppure in un contesto di grande crisi economica e sociale la montagna potrebbe rivestire ben altro ruolo, come dimostrano regioni alpine da noi non così lontane. il suo PIL potrebbe essere non così banale! Ma bisognerebbe, almeno a livello regionale, invertire la marcia. Mettervi certo delle risorse di spesa corrente, ma anche avviare un piano di intervento che ridia centralità ai sistemi di governo vallivi, che rivoluzioni per i territori montai il sistema dei servizi, senza i quali ben poche famiglie oggi possono scegliere di vivere stabilmente nelle medie ed alte valli. Vasto programma, avrebbe detto il Generale De Gaulle!