Per un quarto di secolo, su buona parte delle Alpi italiane considerate più fragili e marginali, e più in generale sulle Alpi “latine”, ha prevalso una visione culturale in cui lo sviluppo locale è stato essenzialmente pensato in termini di valorizzazione e patrimonializzazione dei beni e delle risorse storiche dei territori, e dove un ruolo di primo piano è stato giocato dai temi dell’identità e della tradizione.
Questo paradigma ha fortemente segnato l’agire e l’immaginario delle amministrazioni e comunità locali, delle progettualità europee declinate regionalmente (PSR, Interreg, Alcotra), dei GAL e anche di diverse Fondazioni bancarie, portando a concentrare risorse e progettualità intorno ad alcuni temi ricorrenti: piccoli musei e ecomusei, cultura materiale e prodotti tipici, memorie e tradizioni, sentieri e percorsi tematici, paesaggi e manufatti storici e rurali.
Si trattava indubbiamente di una forma di risarcimento rispetto ai drammi vissuti dalla montagna durante la modernità novecentesca. Ed era un’idea originariamente giusta, che trovava riscontro nelle riflessioni di figure come Georges Henri Rivière e Hugues de Varine: partire dalla valorizzazione del patrimonio per generare sviluppo e innovazione economica, culturale, sociale. Col tempo, e nel farsi concreto delle pratiche, questo assunto iniziale si è però progressivamente rovesciato: il fine ultimo della patrimonializzazione, piuttosto che le comunità e lo sviluppo locale, è diventato il patrimonio stesso. Le progettualità hanno preso la forma di elencazioni di beni da valorizzare: declinazione alpina di quell’idea di Italia-giacimento che basterebbe mettere in valore per produrre quasi automaticamente sviluppo autocentrato.
Un paradigma, quello della patrimonializzazione, fondato su un sillogismo che ha legato linearmente territorio, valorizzazione e sviluppo. E in cui il progressivo assolutizzarsi e reificarsi di una visione tutta incentrata sul territorio locale, di un’ideologia territorialista e del “tutto territoriale”, ha paradossalmente portato a dimenticare la dimensione spazialmente multiscalare e conflittuale dello sviluppo e delle politiche. Grazie anche al prevalere di un modus operandi che ha enfatizzato il ruolo delle buone pratiche e la loro trasferibilità, l’atto dell’interpretazione del territorio è così venuto sovente a naturalizzarsi, ricercando solo quegli elementi che sembravano rispondere alle ricette stereotipate dello sviluppo locale.
Da qui una visione del territorio come contenitore di risorse e valori intesi essenzialmente come “oggetti fisici”, e una parallela scarsa attenzione per le pratiche che attraversano e strutturano lo spazio locale nella loro interazione con le altre scale. Certamente si è assistito a un incremento della consapevolezza rispetto al territorio e ai temi della negoziazione, ma spesso in assenza di una dimensione critica e di una vera e propria competenza territoriale, sottolineata anche dall’uso di un lessico convenzionale e vago: l’esito è una debolezza nella costruzione di immagini realmente strategiche per lo sviluppo.
La visione interpretativa della prima fase – leggere il territorio per coglierne problemi e potenzialità – si trasforma così in modello prescrittivo. Da alternativa strategica, il territorio e lo sviluppo locale si rovesciano in una sorta di nuova ortodossia. Paradossalmente l’istanza alla diversità rischia allora di tradursi – come è avvenuto in diversi spazi della patrimonializzazione – in ripetizione e omologazione, ribadita da una visione del territorio che pone l’accento sull’identità, e quindi sui caratteri di permanenza, stabilità, continuità. Ciò ha determinato un ulteriore dogma: compito delle progettualità fisiche è quello di uniformarsi ai canoni figurativi del paesaggio (ritenuto) tradizionale – come se esso fosse il prodotto di un’istanza estetica e non di un’opera trasformativa plurisecolare per la creazione di condizioni di abitabilità in un ambiente estremo –, senza la possibilità di introdurre elementi di innovazione. Un paesaggio culturale che perde spessore diacronico per assumere i tratti di una sorta di retrotopia contemporanea.
Malgrado alcuni indubbi meriti, a distanza di un quarto di secolo tale paradigma mostra la corda. Perché dietro la patrimonializzazione, in fondo, si può cogliere la permanenza di un’idea di sviluppo tutta incentrata sulla valorizzazione turistica, e in cui le diffuse progettualità di reinvenzione della tradizione sembrano rispondere più agli immaginari urbani sulla montagna che a una vera idea di sviluppo autocentrato. E soprattutto perché spesso è prevalsa una dimensione autarchica, incapace di praticare innovazione sociale, economica, tecnologica, culturale, e reali scambi tra le risorse del “dentro” e le competenze del “fuori”.
Non che non vi siano da alcuni anni nuove e inedite progettualità locali, che si collocano all’esterno di questo alveo, praticando modalità di rigenerazione culturale o di uso delle risorse dai caratteri innovativi. Ma a preoccupare è la pervasività di una visione che continua a alimentare i format delle politiche pubbliche e l’agire delle amministrazioni locali.
Per deassolutizzare il paradigma della patrimonializzazione, forse può allora essere utile guardare alle altre Alpi, quelle di lingua tedesca, dove l’avanzare della cultura ecologista ha determinato non soltanto progettualità di conservazione del patrimonio naturale e di turismo soft, ma anche innovazione tecnologica, produzione di energie alternative, ecoedilizia in rapporto alle disponibilità di materiali del luogo, gestione forestale, trasporti sostenibili. Con creazione di filiere locali, posti di lavoro, inediti savoir faire, e nuove forme di abitabilità del territorio alpino. Non solo quindi valorizzazione dell’esistente, ma anche produzione di nuove istanze, di nuove risorse e economie, di nuovi valori e culture.
Gli odierni processi spontanei di reinsediamento sulle Alpi, le progettualità endogene in atto dai caratteri maggiormente innovativi, richiedono una riconsiderazione, concettuale e operativa, dei modi di pensare lo sviluppo locale per la montagna e di quale progetto di futuro si immagina per essa. Un progetto dove la dimensione territorialista venga a coniugarsi con un approccio relazionale, capace di superare le derive autarchiche e di legare le dinamiche dei singoli luoghi alle altre scale. Un progetto in cui la visione della valorizzazione del patrimonio storico-culturale propria delle Alpi latine si ibridi – come ad esempio sta avvenendo in Trentino – con quella dello smart rural development delle Alpi di lingua tedesca, trovando nei portati della Strategia nazionale per le Aree Interne le condizioni base per l’abitabilità e l’infrastrutturazione del territorio montano. Soprattutto, un progetto che richiede nuove culture e competenze, da immettere nelle realtà alpine ma anche in quegli enti intermedi che si occupano di prefigurare le politiche di supporto, necessariamente intersettoriali, per lo sviluppo della montagna.
* Tratto da “Il giornale delle fondazioni”, titolo originale “Focus Montagna XXI secolo. Alpi e patrimonializzazione: fine di un paradigma?”.
Antonio De Rossi è professore ordinario di progettazione architettonica, direttore dell’Istituto di Architettura Montana e coordinatore del dottorato in Architettura Storia Progetto presso il Politecnico di Torino.
Finalmente! Sono totalmente d’accordo con te. Incomincio a sentirmi un po’ meno solo
ciao, tanti saluti
Marco