Mi pare di vivere una scena che si sta ripetendo, simile o uguale, in tutti i paesini delle terre alte di Italia. Siamo a Bore, piccolo comune tra la montagna parmigiana e quella piacentina. Qui coordino da qualche anno le attività di un progetto rivolto a richiedenti asilo e rifugiati. Si tratta di seconda accoglienza e integrazione, nell’ambito della rete Sprar (Servizio protezione richiedenti asilo e rifugiati), che ha lo scopo di rispondere alle richieste di accoglienza, coniugandole con i bisogni della comunità.
Sì, perché dei bisogni delle comunità quand’è che si è smesso di parlarne? Questa deriva silenziosa di persone dalla montagna alla pianura, con il conseguente declino socio economico, pare che non abbia ancora preso consapevolezza di sé stessa. È ancora a scoppio ritardato: di conseguenza, non sta prendendo ancora voce. A parte nelle bocche di quei sindaci che si muovono con lungimiranza all’interno dei confini del loro territorio. Insomma, mi trovavo a Bore ieri, per una riunione domenicale indetta dal Sindaco, rivolta alle mamme e ai papà del paese. Si parla di scuola e di bambini. Che mancano. Decisamente non ci sono abbastanza bambini. Ci guardiamo tutti in faccia intorno ad un tavolo. Io non ho figli. Sono lì per aiutare Faith a capire cosa gli altri stanno dicendo, e a tradurre se c’è bisogno. Faith parla ancora un incertissimo italiano. Facciamo i conti. Letteralmente sulle dita di due mani, contiamo i possibili presenti ai banchi nel settembre che verrà. In classe prima le previsioni dicono che ci sarà solo Marco. La sua mamma è preoccupata perché gli altri due bambini appena al di sopra di Marco come età, hanno non uno, ma due anni in più di lui. Siamo in una scuola di pluriclassi. È preoccupata perché ha paura che Marco, quando tornerà dal primo giorno di scuola, sarà triste perché non avrà giocato con nessuno, perché gli altri (parliamo degli altri due bambini che sarebbero in terza elementare) sono più grandi di lui di due anni. Poi c’è la mamma di Giulia, che si scusa, ma lei non aveva capito che il destino della scuola si giocasse sulla presenza anche di un solo bambino. Lei la sua l’ha già iscritta altrove: pensava che il destino della scuola fosse già stabilito. Ovvero chiusura. Poi c’è Anna, un’altra mamma. Anna dopo trent’anni di vita in città, il destino l’ha aiutata a realizzare il sogno di venire a vivere in montagna. «Per mio figlio» dice, «perché qui la vita è più sana e anche per noi è meno stressante». Ha, con fatica, sistemato una casa di famiglia e ora ci vive da cinque anni con il figlioletto e con il marito. Guarda tutti con preoccupazione e dice: «sono stata qui cinque anni crescendo mio figlio perché sapevo che avrebbe vissuto un ambiente migliore rispetto alla città, e adesso mi dite che forse la scuola non c’è?!». Inizia qui dunque, già dalla prima elementare, il suo destino di gran trasfertista? Come tutti i montanari…
Poi ci siamo noi. Ci sono io, che c’entro poco in questa riunione tra Sindaco e genitori, e poi c’è appunto Faith. Una donna nigeriana che di destini ne ha visti molti passare sotto le sue mani. Prima i disordini in Nigeria, che le hanno portato via il marito. Sola in Nigeria, con i primi due figli, che all’improvviso si sono trovati senza papà. Poi il tentativo di ricostruirsi una vita in Libia. L’incontro con un altro uomo, la fuga da un altro paese in disordine e l’arrivo in Italia. Nel frattempo un altro figlio nella pancia che nascerà in Italia. Il collocamento qui, sulle montagne dell’Appennino Tosco Emiliano. In un piccolissimo paese. Mi dice, da cittadina abituata alle grandi città, «qui non mi dispiace. E’ tranquillo. Ma non c’è il lavoro, e senza macchina sei completamente tagliata fuori». Ha ragione. Si impegna con tutte le sue forze affinché i figli imparino a scuola, e i più grandi sanno già un perfetto italiano: la aiutano a spiegarsi nei negozi e negli uffici, perché lei, a differenza dei suoi figli, parla un pessimo italiano. Il problema è la sua scarsa scolarizzazione: mai andata a scuola e imparare a leggere e scrivere in un’altra lingua crescendo tre figli con la preoccupazione di un futuro da affrontare sola… non è una passeggiata per nessuno. Anche lei è al tavolo con noi, di fianco a me affinché io possa, qua e là, supportare la sua comprensione con qualche frase in inglese. Ascolta tutto con grande attenzione. Si parla di adeguamento sismico e del fatto che l’investimento di migliaia di euro si fa dal momento in cui la scuola apre. Ovviamente non si fa se poi chiude. Bisogna capire quale sarà il suo destino.
Inevitabilmente io penso a quello che ascolta, a come viene filtrato dalla sua esperienza culturale e a quello che capisce o non capisce. Provo a immedesimarmi per cercare di darle gli elementi mancanti del discorso. Eccone qualcuno: la mancanza di bambini. Arriva diretta dall’Africa. Bambini a valanghe. Non come qui. Come si spiega il fatto che qui non ce ne siano abbastanza per mantenere aperta una scuola? Eccone un altro: il terremoto e l’adeguamento sismico. «Faith sai cos’è il terremoto?». «No» mi dice. Ecco il terzo: le distanze che separano il paese dal paese più vicino che ha una scuola elementare. Se vogliamo ottimizzare le risorse (cioè usare le poche che ci sono), dobbiamo farlo in una sola direzione. Si deve scegliere insieme perché il pulmino del comune andrà in una sola direzione, non ci sono soldi per fare due tratte verso due differenti comuni. Quindi si deve decidere che, in caso di chiusura scuola, i bambini andranno in quello o quell’altro paese. Un altro gap nella mente di Faith: non siamo nell’Europa opulenta che pensavo? No, ci sono zone di Italia che si raffrontano con questo: non ci sono soldi. Sei capitata in montagna, più precisamente in quella zona dell’Appennino Tosco Emiliano che vede una massiccia emigrazione a partire dalla seconda guerra mondiale. E tu hai fatto la marcia contraria. Come Anna, ma per altre ragioni. Insomma, i bambini non ci sono e che facciamo? Lungi da me sostenere la natalità per sostenere la comunità! Da donna non posso pensare in modo strumentale il mio corpo a favore della comunità e le ragioni delle scarse nascite sono molto più complesse. L’Appennino non fa eccezione nel nostro mondo. Ma penso alle nostre società, alla vita odierna in rapporto a quella di cento anni fa. La vita nostra in rapporto a quella dei paesi di provenienza di Faith. Non penso alle soluzioni, ma mi trovo soltanto qui nel mezzo: a raccogliere i pensieri che corrono sul filo di una tavola rotonda e a restituirli a Faith, per quel poco possibile. Con i suoi costrutti culturali, con il suo metro di giudizio, con la sua visione portata dall’Africa e non ancora metabolizzata. Che penserà lei? Mentre penso a tutto questo, verso la fine della riunione mi si avvicina a un orecchio e mi dice: «è un grosso problema questo della scuola. Un grosso problema davvero. Ma una cosa non capisco: se mancano i bambini in questa comunità, perché non li fanno?».
Non sentiamoci giudicati da quello che dice Faith. Lei ha ragione o ha torto, a seconda che vediamo la questione con gli occhi dell’individuo, o con gli occhi della comunità. Abbiamo tutti ragione di pensarla come la pensiamo, perché sono le nostre esperienze che guidano la nostra opinione. Come coniugare queste visioni? Alla fine della riunione mi viene da pensare che le visioni più vicine tra le persone presenti, sono proprio quelle di Faith e del Sindaco: sono le uniche presenze che pensano in ottica comunitaria. Parliamo di scelte di comunità. Decidiamo insieme come fare con questo problema della scuola che chiude, e cerchiamo di vedere lungo, al di là di settembre.
Ci sono i paradossi della nostra società che emergono sempre quando poi riprendo la macchina per scendere a valle. Probabilmente per i più non sono paradossi, ma per me, con cinque anni di Uganda nel mezzo della mia infanzia, una sorella che vive in Tanzania e con il lavoro che faccio, sono proprio paradossi. Mi attraversano la strada come caprioli mentre rifletto in macchina quando scendo a valle, verso sera, e ce ne sono di tutti i tipi, a seconda di quanti sono gli aspetti della vita quotidiana in cui questi paradossi si sono mostrati. Penso alle mie amiche mamme e neo-mamme: anche nel mio paese alcuni mandano i figli via dal comune per andare a scuola. Questo per scelta, non per obbligo. Non parliamo di superiori, ma di elementari. Anche io ho iniziato a viaggiare all’età di tredici anni. E poi per tutta la vita. Mi è bastato. In paese ci sono solo la scuola materna, elementare e le medie. Le superiori no, devi viaggiare per forza. Mi riferisco alla scelta di mandare altrove i bambini in età da materna, facendo centinaia di chilometri a settimana. Ed è quindi qui che quell’impeto adolescenziale di voler migliorare il mondo mi esce all’improvviso anche da adulta, quando penso che i movimenti dovrebbero nascere essenzialmente per convogliare tutte le nostre energie a migliorare quello che già esiste, non disperdersi sostituendo l’esistente. E se vivessimo più semplicemente? Ecco perché non amo la politica, ecco perché non amo i nuovi raggruppamenti. Perché questo non ci aiuta ad aggiustare, ma continuamente a creare del nuovo, senza storia. Un senza-passato che inevitabilmente si scontrerà con ciò per cui il precedente ha fallito.
Mi porto a casa i miei paradossi del giorno: un’emigrazione verso le terre alte, per scelta e per forza. La mancanza di risorse in un terreno ricco (l’Africa e la nostra montagna). L’abbondanza di bambini e l’assenza di bambini. La fortuna di avere una scuola che sta in piedi per miracolo, e il metterla a rischio perché siamo abituati a pensare a nuovi modelli visti altrove e non consolidati dentro geografie e storie locali. Trovarsi in pochi e non riuscire a fare rete, a creare sistema. Non riuscire a pensare che le cose rotte o che non vanno, si possano aggiustare, e migliorare: come il nostro territorio, per esempio.
Non sentiamoci assenti a casa nostra.
Maria Molinari
Scelte difficili e dolorose, quelle che intrecciano le visioni ed i cammini dei singoli con l’orizzonte più ampio (e per sua natura più intricato) della dimensione comunitaria. In realtà la politica dovrebbe proprio servire a facilitare questo intreccio, rendendo meno dolorose le scelte: se provassimo a costruire una comunità più accogliente -non solo verso i migranti, ma anche verso i bambini e le loro famiglie- le culle tornerebbero a riempirsi di futuro! Ma abbiamo paura, sia in montagna che nelle valli, sugli Appennini come nelle Dolomiti trentine: siamo paralizzati dalla paura -dell’uomo nero, dei lupi, della mancanza di lavoro, del domani per i nostri figli- e così ci perdiamo tutto il buono che, invece, abbiamo accanto.