Fuori piove, la stufa scricchiola, la minestra è sul fuoco. Non so se l’immaginario sulla nostra montagna appenninica sia proprio questo nella mente di molti, ma nella mia, che ci vivo da sempre, è anche questo. La lentezza del fuori, la poca casualità con cui s’incontrano le persone andando al negozio a comprare quel che manca in casa, le chiacchiere al bar con chi ti ferma solo per scambiare due parole, offrendoti un bicchiere di vino. Siamo tra le regioni Emilia e Toscana. L’area dell’Appennino Tosco-Emiliano in cui è collocato il comune di Berceto, al confine con il Parco dell’Appennino. La parte montana costituisce quasi la metà della regione Emilia-Romagna, ed è anche la parte che ha visto negli anni passati una massiccia emigrazione verso le città. Oggi, a differenza di allora, i residenti stanno assistendo a un fenomeno nuovo che è quello dei ritornanti, dei nuovi abitanti che noi qui chiamiamo gli “scappo dalla città”.

Sono i figli dei montanari emigrati all’estero o in città, quelli che possiedono ancora la casa di proprietà dei nonni o dei genitori riaperta dai figli. Non è solo la vita di paese quella che cercano, che si potrebbe paragonare a quella di quartiere: è piuttosto la consapevolezza del luogo proprio. Come di una proprietà collettiva riconosciuta. Si va via dall’anonimato, per vivere un’identità più personale. Siamo indirettamente consci che in un ambiente piccolo è più facile essere il pesce grosso. Per questo alcuni decidono di venire in montagna e occuparsi del lavoro che fanno, percorrendo passi che altrimenti in città sarebbero sorpassati da altri (non necessariamente per bravura), e che costituiscono la moltitudine. In molti settori è così.
Poi arrivano coloro che, pur non avendo nessun legame con il territorio, lo scelgono, tramite passi coraggiosi. Il più delle volte capita per caso: in macchina guardando fuori dal finestrino; attraversando strade durante una vacanza non poi così spensierata, una vacanza con uno scopo. Spesso hanno già frequentato la montagna durante brevi o lunghi trekking con le guide, che contribuiscono attraverso la confidenza con i paesani a far vedere che questi luoghi sono fatti di bellezza. E così la voglia di bellezza sorge negli occhi speranzosi di coppie o singoli che ci domandano: “Ma se volessi prendere una casa in affitto qui, sai quanto costerebbe? E le case in vendita? C’è un’agenzia?”. Per le case in affitto ci si rivolge all’elettricista di paese o alla lattaia, e questo non è strano: sono coloro che hanno più contatti e che per natura sono portati a creare legami. Tutti li prendono come riferimento e l’informazione gira, come deve fare. Più e meglio di internet.
Poi ci siamo noi, che qui ci viviamo da sempre, ma che la montagna abbiamo imparato a sentirla solo recentemente. Ora abbiamo cominciato a pensare di volere lavorare sulla presa di coscienza. Anche noi, tipologia nuova di montanari, ci guardiamo intorno meravigliati della bellezza del luogo che abitiamo. Per anni questi luoghi, soprattutto nel primo dopoguerra, sono stati concepiti dagli abitanti come arretrati rispetto alla città. Soffrivamo, in montagna, di quell’immaginario rispetto a noi stessi che si potrebbe paragonare all’immaginario dei migranti africani che denigrano l’Africa (ve ne sono molti), considerandola arretrata e non desiderabile, lontana dai sogni di chiunque.

Come una casa di pietra abbandonata in mezzo al bosco, in una boscaglia di noccioli che prima non c’era, prima era prato, mangiata dalle edere e dal tempo inutilizzato. L’Appennino a volte mi viene da vederlo cosi. Una casa con gli interni scrostati, che l’umidità se la mangia. Le stoviglie ancora poggiate in cucina, in cui fa capolino una trave storta e pericolante. A volte questo mi sembra la mia montagna. Una casa che aspetta di cadere o di essere sistemata. Ma proprio perché cresce l’interesse verso i luoghi, la curiosità per le storie e le vite passate, inevitabilmente t’interroghi sui segni lasciati da chi ci ha vissuto in precedenza. Perché chi li viveva, aveva già capito che era bene costruire una casa su una roccia, con le stalle al piano terra per scaldare il piano di sopra, in una sorta di feng shui nostrano. Forse questa conoscenza non è da buttare. Cerchiamo di capire, di fare alcune cose come loro, di parlare al luogo per farcelo amico e trovare il modo di farci accogliere.
Dunque “più tardi” siamo arrivati noi, questi “nuovi montanari”: la generazione dei trekking, del buon vivere, del vivere eco e green, della decrescita felice, dell’andare a vivere in montagna perché in città non si sta più così bene, del rallentare che tutto questo correre ci fa male. Capiamo che per rimanere occorre fare rete tra le valli e con la città, fare movimento e rendere interessante un luogo. Nascono i festival, si accolgono persone, puliamo sentieri, inventiamo camminate e percorsi per creare cultura o per andare a scovarla: lo spettacolo teatrale, le narrazioni, il the end culinario, la visita ai racconta-storie di paese alla fine di una camminata. E la gente si appassiona.
C’è un trekking che faccio nella stagione bella, che ripercorre le vecchie mulattiere usate dai carbonai. E poi c’è un fuori sentiero, una traccia recentemente riaperta da un gruppo di rifugiati con la guida di Fausto, della Cooperativa Forestale Passo Cisa, che era utilizzata dai contadini per portare le vacche al pascolo dal borgo al Passo. In questo trekking si percorrono le strade riscovate dal folto del bosco, e dall’alto si vede l’autostrada.
L’autostrada è il monumento alla velocità di oggi, del passare i luoghi senza viverli. E noi ci passiamo accanto, a questa autostrada, andando a scoprire cosa sopravvive sotto. Quali erano i luoghi di vita, prima del suo avvento? I pascoli abbandonati, gli essicatoi nel bosco, le case di pietra e i mulini… Ma soprattutto le strade. I sentieri, le mulattiere e le stradine che portavano ai luoghi di vita e di lavoro, quando vita e lavoro erano tutt’uno. Differenti modi di spostarci, differenti modi di vivere e di fare i luoghi.
Alla fine della giornata si torna al borgo, molte case, pochi abitanti. Circa dieci. Qui c’è l’osteria. Ancora attiva. Fantastici menù locali. Ecco, in quest’osteria una volta al mese c’è cucina indiana. L’oste è una ragazza indiana cresciuta in montagna. Adottata da bambina insieme ai suoi due fratelli, una volta grande, e già mamma, ha deciso di andare in cerca della sua famiglia d’origine. È ritornata in India e, come in una storia da romanzo, ha ritrovato la mamma biologica. Una volta l’anno la torna a trovare, ed è questa madre che ora le insegna le ricette indiane. Le stesse che lei cucina, una volta al mese e su prenotazione, in osteria. Selvi è una grande amica, e cucina per i trekkers che accompagno. Noi facciamo turismo su questo tipo di contenuti. E ci divertiamo un sacco!
Mi viene da pensare al confine tra città e montagna come a un confine territoriale che le persone decidono di attraversare in tempi e modi diversi. Mi viene da pensare che nel vecchio modello turistico alpino sono i cittadini che, andando in montagna, portano la città lassù, con il suo carico di stress e pretesa di efficienza. Il confine in questo caso si cancella attraverso una differenza mancata, nascosta ai nostri occhi: saliamo in montagna ma ci comportiamo come se fossimo ancora nel traffico di città. Oggi qui proviamo a puntare a un turismo differente, in cui i cittadini vanno in montagna riscoprendola, accettando e accentuando una differenza marcata tra modi di vita e di ambiente. Riconoscendola, rispettando la montagna, capendo di essere in un modello culturale con differenti stili di vita.

Forse in un prossimo futuro il rapporto città/montagna sarà tanto fluido da dimenticare queste differenze, da cancellare il confine, come in un prolungamento di noi stessi, di noi cittadini/montanari, anche perché oggi i montanari che vanno in città non nascondono più da dove vengono, ma lo rimarcano con orgoglio, e qui riportano la differenza accentuandola di nuovo.
L’Appennino e le Alpi si trovano in una morsa stretta di resistenza all’ambiente che non è più fatto di freddo, terra dura da coltivare e vacche magre, ma che è fatto di solitudini prolungate, la sensazione continua di essere marginali e marginalizzati dalla politica nazionale e regionale che si concentra nelle città; il sentirsi retrogradi rispetto alla città perché in sottofondo ci è rimasto il retaggio di essere non desiderabili, spesso in contrasto con la sensazione di fascinazione che trasmettiamo ai trekkers della domenica, perché viviamo in mezzo a quello che loro non hanno, ma che desiderano.
Montagna oggi significa fascino di luoghi in abbandono e in ripresa, un costante confronto diretto con il passato, tanto diretto che pare che ti urli in un orecchio, mancanza di servizi, scuole pluriclassi, progetti disattesi. Ma significa anche bellezza da vivere, libertà di respirare, famigliarità con i compaesani, luoghi da ricostruire, luoghi da fiaba, panorami che riempiono gli occhi, Storia di primo ordine, intimità e voglia di città, cene da amici, curiosità verso chi viene da fuori, storie da raccontare…
Due libri recenti raccontano bene questa voglia di evasione, fatta di poderosa natura. Mi riferisco a “Le otto montagne” di Paolo Cognetti e a “Il silenzio coprì le sue tracce” di Matteo Caccia. Questi testi descrivono un rapporto con se stessi che la montagna ti obbliga a costruire. A me, che in Appennino ci vivo e ci sono nata, viene più da pensare al rapporto con la mia comunità, soprattutto, e poi con la fisicità della natura e quello che da essa scaturisce nel rapporto con la mia solitudine. Entrambi quei libri raccontano di un ritorno alla natura, non necessariamente al passato, quanto piuttosto di ritorno al lato selvatico. Come nel testo di Marco Aime, “Il lato selvatico del tempo” dove è il selvatico che si affaccia improvvisamente nella tua mente di fronte al passato che riemerge. Viviamo in una sorta di malinconia silenziosa e inspiegabile, quasi un’assenza di desiderio. Ma gli Appennini descrivono anche un ambiente di passaggio, strade percorse in lungo e in largo, in un’Italia fatta di collegamenti storici e attuali, e non mi piace pensarli luogo solitario. Mi piace pensarli per quello che sono: un posto dove è pensabile vivere bene, curando i rapporti umani che vanno oltre all’individuo, ma che sono comunità. Che è anche la principale cosa che dovrebbe interessarci.
Maria Molinari