Dalla visione prettamente consumistica della seconda metà del Novecento, sul finire del secolo si è passati al “consumo di emozioni”, sommariamente accorpate sotto stereotipate voci (sport, cultura, gastronomia, divertimento), ma la domanda sta di nuovo cambiando. Una buona metà dei turisti della montagna non si accontenta più di vivere un’emozione: vuole tornare a casa con un’esperienza. Da consumatore passivo, prodotto egli stesso del mercato turistico, il viaggiatore del XXI secolo vuole diventare protagonista attivo, consapevole e competente. Non gli interessa la proposta di un luogo inteso come oggetto di consumo, cerca una narrazione che contenga anima e senso, e non si esaurisca nel corso della vacanza.
L’esperienza è la base dell’emozione, e per fare esperienza è necessario l’incontro con l’“altro”: l’abitante della montagna, il suo paesaggio, il suo mondo. In uno studio sulla filosofia del viaggio Franco Riva scrive che «una comunità mostra di avere tanta più identità quanto più riesce ad aprirsi e ad offrire ad altri questa identità». L’incontro non si esaurisce con la vacanza ma continua nel tempo, in uno scambio costruttivo tra cittadini e valligiani, tutti figli delle stesse contraddizioni ma abitanti e interpreti di territori diversi.
Il punto chiave riguarda il paesaggio. Il turismo del terzo millennio funziona nei luoghi in cui è stato preservato il territorio e se ne sono favorite la cura, la salvaguardia, la bellezza. Agricoltura e turismo vanno a braccetto non solo perché i turisti comprano e consumano volentieri i prodotti locali, ma anche perché una buona agricoltura vuol dire paesaggio di qualità. Soprattutto nei mesi estivi, quando il pietoso velo del manto nevoso non copre più gli scempi e le reliquie delle infrastrutture invernali.

Come ha ben sintetizzato Paolo Cagnan sul quotidiano “Alto Adige”, «la montagna luna-park non è modello vincente, il surplus è dato dalla natura e dalla sua conservazione. Dunque, la chiave del futuro è il “turismo sostenibile”… Il turista ideale, così come disegnato dallo studio della Convenzione delle Alpi, potrà anche arrivare in macchina, ma poi userà shuttle e altri mezzi pubblici. Inizierà a frequentare la montagna non solo d’inverno o d’estate, ma anche nelle mezze stagioni, scoprendone la bellezza. Saprà apprezzare attività sportive che non siano legate allo sci (i costi di acqua ed energia legati ai cannoni potrebbero esplodere, in futuro) e si sentirà come a casa sua: non tanto perché avrà comperato un appartamento (non è più tempo), ma perché attorno a lui ci sarà un contesto di “coccole” vere, più che sorrisi affettati da corso in customer satisfaction».
Per essere corretti converrebbe parlare di “turismi” al plurale. Sulle Alpi si vanno sempre più delineando due modelli: l’industriale e l’artigianale. Difficilmente integrati e integrabili tra loro. Sono due offerte molto lontane e spesso inconciliabili, basate su domande differenti. Pensiamo per esempio a Sestriere e alla Val Troncea, in alta Val Chisone, oppure a Madonna di Campiglio e alla Val di Genova, tra il Brenta e l’Adamello. Si tratta di realtà che convivono a pochi chilometri di distanza, ma che si basano su un uso dell’ambiente e una tecnica promozionale agli antipodi. La differenza dei due modelli salta all’occhio, è evidente; meno evidente risulta la macchina che ci sta dietro. La prima può solo correre e crescere continuamente, perché se si ferma è perduta, l’altra può anche rallentare, correggere e ripartire, non perché il suo pubblico sia meno esigente dell’altro, o più “masochista”, ma perché è responsabilizzato e disponibile all’adattamento.
Il turismo dolce o artigianale può permettersi una gestione misurata e flessibile. All’impianto monolitico delle strutture per le masse, pesantemente impattanti sull’ambiente montano, si contrappone un mosaico di piccole strutture distribuite in modo leggero, capillare e profondo sul territorio. La quantità non è affatto esclusa, ma viene perseguita con la sommatoria di tante piccole imprese di “qualità”, spesso di matrice familiare, sempre con una base culturale. La cultura è tutto. Senza cultura non c’è cambiamento.
Enrico Camanni