“Se vieni su presto, ci facciamo prima un giro con le ciaspole”. Ho fissato per l’indomani un’intervista con Paolo Cognetti, autore del romanzo “Le otto montagne”, caso letterario degli ultimi mesi. Non conosco di persona lo scrittore e colgo al volo l’invito a passare una mattinata insieme nei suoi monti, sull’ultima neve di aprile.
Poco dopo le 8 sono in Val d’Ayas, a Estoul, piccolissima borgata sopra il paese di Brusson: una balconata sulla Vallée e sul Bianco, a 1.800 metri di quota. Paolo mi aspetta vicino alla strada, insieme a Lucky, il suo cane meticcio bianco e nero, dono di un amico che vive in una malga poco più in alto. Il sole è caldo e prelude ad una giornata pienamente primaverile. Le piste da sci della zona sono chiuse da tempo, siamo in pieno disgelo. Nessuno in giro, i posteggi vuoti, il bar sembra abbandonato.
Scambiamo due parole mentre mi metto gli scarponi e subito stiamo salendo a piedi, attraverso i prati chiazzati di neve, dove già spuntano i crochi. La baita dove arriviamo è quella raccontata ne “Il ragazzo selvatico”, il “quaderno di montagna” di Cognetti: da dieci anni gliela affitta Remigio, l’amico montanaro che ha ispirato più tardi il personaggio di Bruno, ne “Le otto montagne”. E’ una piccola costruzione in pietra a due piani, stalla e locale superiore, interamente ristrutturata da Remigio stesso, con un minuscolo lucernario che si apre sul tetto di ardesia. Dentro, un arredamento spartano ed essenziale, come una moderna capanna di Thoreau: tavolo con due panche, letto, lavello con fornelli e il camino, unico riscaldamento, circondato da libri e utensili vari.
Un caffè veloce e ci rimettiamo in cammino: dietro casa comincia un ampio bosco di larici e poi, continuando a salire, ci troviamo subito su campi di neve, che ancora regge i nostri passi. Ci inerpichiamo per un’ora buona in direzione della Punta Regina, tagliando in diagonale per larghe distese di rododendri e traversando canaloni riempiti dalle slavine. Paolo va sicuro, con passo allenato traccia la via in quello che, come mi racconta, è uno dei suoi giri quasi quotidiani, nei luoghi in cui ha ambientato il suo romanzo. Parliamo e saliamo, sino al Colle Ranzola, valico tra Val d’Ayas e Valle del Lys: in fondo, sull’altro versante, Gressoney St. Jean. Il tempo di osservare il panorama e di leggere la targa dedicata a Tolstoj, che qui salì il 20 giugno del 1857, e che riporta un brano dai suoi Diari giovanili:

“Partiti alle sei da Gressoney
saliti fino ad una cappella
aria pura e rarefatta
suoni chiari sui monti
un ragazzo canta, discesa
aromi, odori di segala e melissa
canto di cuculo sui monti.”

Poi ci mettiamo le ciaspole e ci buttiamo giù dal versante più ripido, ancora coperto da neve abbondante, anche se ormai cedevole. Paolo scende quasi di corsa, allegramente a balzelloni, preceduto dal cane. Rifacciamo tutto il percorso in discesa, sul versante opposto, questa volta senza parlare.
E arriviamo a baita, come direbbe Rigoni Stern, che per Paolo è stato e rimane maestro di vita e di scrittura (proprio di Mario, e anche dei progetti in Bosnia di suo figlio Gianni, avevamo a lungo parlato salendo). Al tavolo sul prato, con il bicchiere colmo di vino Carema, continuiamo a parlare, questa volta con un registratore davanti. Il sole è alto ormai e sul pascolo di fronte un piccolo trattore lavora a spianare i cumuli di terra lasciati dalle marmotte.

Paolo, come sei arrivato qui, a vivere in questa baita lo racconti ne ” Il ragazzo selvatico”, il tuo “quaderno di montagna”… Un giovane scrittore di trent’anni, con il desiderio di fare chiarezza dentro di sé in un periodo non facile della propria vita. Affascinato dall’insegnamento di Thoreau e poi dall’avventura di Chris McCandless – il ragazzo di Into the Wild raccontato da Krakauer – abbandoni la città (Milano e New York, dove avevi vissuto per lunghi periodi, scrivendo storie “urbane”), per venire a trascorrere una lunga stagione tra questi monti, che frequentavi da bambino. Da solo, in compagnia dei libri, con il proposito di seguire l’insegnamento di Thoreau, quel famoso “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita…”.
Ora, a distanza di quasi dieci anni da quella prima volta in cui hai lasciato la dimensione urbana per immergerti in quella rurale d’alta quota, come vivi il rapporto tra città e montagna?

A un certo punto ho pensato di venire a vivere qua punto e basta, di vendere la casa che ho a Milano e di comprarne una qui, dove sono in affitto, per mettere radici. Poi però ho capito che non andava bene per me vivere in un luogo solo: la montagna rimane un luogo felice per me perché non è una prigione. Se dovessi viverci tutto l’anno credo che inizierei a soffrirla e non voglio. Invece quando non sto più bene qua vado via e vengo qua quando ho tanta voglia di montagna.. Diverso forse sarebbe avere qui una famiglia, come tu dicevi dei “nuovi montanari”, che sono spesso in coppia, perché andare da soli a stare in montagna è molto dura. E poi ci sono le stagioni: l’autunno mi spinge molto a scendere, più che per la neve per il buio, perché quando sei qui da solo e alle cinque del pomeriggio tramonta il sole è lunghissima la serata. A ottobre, novembre tutto mi dice vai, vai via. Mentre questa è la stagione in cui mi sento di venire su. Ormai sono 10 anni che faccio questa vita divisa in due e credo di aver trovato un po’ il mio equilibrio nell’andirivieni: sono una di quelle persone che hanno sempre avuto due posti, due lavori.

Tu vivi parte dell’anno a Milano ma anche in giro per il mondo…
Sì, per me Milano è la base dei viaggi, mentre quando sono qui, sto qui. Quando sono qui scrivo, cammino. Se riesco vado a camminare tutti i giorni. Per me la scrittura è più della mattina, poi il pomeriggio vado a camminare, faccio un po’ di lavori con i miei amici montanari: la legna, il fieno, gli do una mano. Per alcuni anni ho lavorato in un ristorante qui sotto ma ora non più perché riesco finalmente a guadagnarmi da vivere con la scrittura. Nel fine settimana di solito vengono su gli amici ed è il momento più allegro, quello della socialità insomma.

Ti senti quindi di appartenere a due mondi…
Sì, perché l’anima del cittadino non credo che te la levi, l’anima di dove sei nato e cresciuto…

Ma non vorresti nemmeno levartela, forse…
No. Tra l’altro percepisco anche il buono di questo. Ne stavo parlando con Franco Arminio, che ho incontrato a Roma da poco: mi diceva di queste due categorie, per lui importanti, nel rapporto con la montagna, che sono intimità e lontananza. Mi rendo conto che alcune cose, come l’ecologia, sono sguardi sulla montagna da cittadini. C’è del bene che il cittadino può portare in montagna, perché l’ecologia non appartiene a questi posti: la visione del montanaro rispetto al lavoro spesso è ancora vecchia e passa per il costruire impianti, case, strade… l’idea del turismo sostenibile, della montagna come parco, viene dalla città ed è una cosa buona che la città può portare in montagna. Vedi, lì su quel crinale (mi indica la costa di fronte alla sua baita) l’anno scorso hanno fatto una maledetta pista di down-hill: vanno su con la seggiovia e si buttano giù con la bici…

Sono cose portate dalla città anche queste…
Sì, perché poi io sto in mezzo a una pista da sci (la baita è costruita ai margini di una pista da discesa). Qui il sabato mattina arrivano i milanesi con gli sci sulla macchina e la domenica sera se ne vanno. E’ una montagna piuttosto benestante: qua di montanari poveri io non ne conosco, tutti hanno bene o male fatto i soldi col turismo. Mi sento io quello che porta avanti un discorso sulla sostenibilità: per esempio, io lascio la macchina giù ai posteggi, anche d’estate. Dopo un anno che lo facevo, qualcuno di qui mi ha domandato: “ma perchè la lasci là? Non sai che puoi salire fino alla baita?” Sono solo io che lascio giù la macchina… Oppure anche il fatto che in dieci anni non ho spostato un sasso (mi indica dove ha provato un paio d’anni a fare un orto): avevo pensato di sistemare il muretto qui di fianco alla mulattiera, ma poi per me è importantissimo non toccare quasi nulla, che non si vedano i segni del mio passaggio.

E come ti hanno accolto dunque le persone del posto?
La montagna è abbastanza accogliente verso gli eccentrici. E’ vero che i montanari sono chiusi, però se arriva un matto non è un problema… è un matto come tanti di noi! (ride). E poi per i primi anni non avevano capito chi ero. Quando è uscito “Le otto montagne” finalmente hanno capito che cosa faccio: temevo molto il momento dell’uscita del libro, chissà come avrebbero preso lo sguardo su di loro di uno che viene da fuori… perché c’è anche dell’arroganza nel raccontare un mondo che non è il tuo. Invece l’hanno apprezzato molto, soprattutto perché ci hanno trovato tanto affetto, credo, di uno che era arrivato e si era innamorato di questi posti, raccontandoli con amore. E lì ho sentito che è cambiato qualcosa: mi hanno accolto, anche se io non diventerò mai uno di loro, però si sono accorti di me e se entro in un bar o giro per Brusson ho la sensazione che mi abbiano accolto. Mi è successo un paio di volte che sia passato qualcuno a lasciarmi una bottiglia di vino con un bigliettino davanti alla porta, ringraziandomi. E uno di questi mi ha scritto una letterina in cui mi ha detto “tu sei l’amico della montagna, sei quello che porta le storie della montagna giù e ci racconti alla città ”… e questo mi piace molto, l’idea di essere un tramite.

Ti trovi quasi in una funzione di mediazione culturale tra due mondi.
Sì e questo può essere sensato rispetto al mio essere diviso in due, perché allora io posso essere quello che va su e giù, anche in senso metaforico, che fa da tramite…

Di qui nascono anche i tuoi progetti per i prossimi mesi?
Sì. Intanto un festival, che si intitolerà “Il richiamo della foresta” e che sto organizzando con una neonata associazione di amici, montanari e cittadini, per i prossimi 21-23 luglio, in una radura proprio qui vicino (sarà un evento culturale a livello nazionale, con incontri, letture e musica, a cui Paolo ha invitato a partecipare anche Dislivelli, e di cui daremo maggiori notizie su questa rivista prossimamente). E poi, sempre con questa nuova associazione, stiamo lavorando al progetto di una sorta di “rifugio culturale”, un luogo in cui promuovere corsi di scrittura, laboratori con le scuole, momenti formativi e artistici, a partire dal recupero di una stalla abbandonata, qui dietro la baita. Sarà un progetto che vedrà la luce nei prossimi due o tre anni, in cui crediamo molto.

Cittadini e montanari insieme, dunque. Paolo, secondo te, di chi sono oggi le Alpi?
(Ci pensa). Intanto sono transnazionali: a me piace molto l’idea che esiste un paese, una nazione alpina che ignora i confini politici. Quando io salgo le montagne qua sopra ogni tanto il telefono mi dice “benvenuto in Svizzera” (ride).. Il patois che parlano qui con l’italiano non ha niente a che fare, l’Italia sembra lontana e questo mi piace molto. Sono andato a Ginevra l’altro ieri e ho avuto proprio la sensazione che esista un paese delle Alpi. Poi ci sono queste città sotto le montagne: le Alpi appartengono anche a loro. Quanto appartengono le Alpi a Torino, a Milano? Ci conviviamo da sempre: come si fa a dire che non gli appartengono? Perlomeno a livello di presenza, desiderio, immaginario, frequentazione. Da sempre le Alpi vivono una dialettica degli opposti tra montanari e cittadini, perlomeno da quando è nato l’alpinismo. Io direi con coscienza che le Alpi appartengono a tutti e due, non me la sentirei di dire che appartengono solo ai montanari. La montagna si è molto reclusa da sola o forse in parte abbiamo contribuito anche noi cittadini, idealizzandola o cercando il folklore, mentre quello che davvero servirebbe è l’apertura. Questo momento di grossa crisi del turismo di montagna è anche molto fecondo, perché ti costringe a chiederti che cosa bisogna fare, visto che come si faceva prima non funziona più. E io in parte ne sono contento, perché se le Alpi diventassero un enorme comprensorio sciistico non sarebbe proprio il mio sogno.

La crisi in effetti ci offre l’occasione di ripensare la montagna: qualche anno fa parlarne come stiamo facendo adesso sarebbe stato impensabile: la montagna di nuovo come un posto per vivere, non solo per il turismo.. Anche il tuo libro dieci anni fa non penso avrebbe avuto il successo di oggi (annuisce). Credo che il tema della necessità, unito a quello della sobrietà (o decrescita), comincino a prendere rilievo nei discorsi sul tornare in montagna, ora che queste scelte di diventare neo montanari sono anche in qualche misura “costrette” o viste comunque come un modo per tirarsi fuori da un mondo che non offre reali occasioni di crescita, di inserimento… Pensando ai ragazzi e ai giovani adulti, che ti scrivono, che leggono il tuo libro (mi dicevi che sono la maggioranza dei tuoi lettori) e che vengono ai tuoi incontri, che tipo di bisogni e di necessità ti sembra che esprimano?
Intanto è una generazione non politicizzata, e per noi è stranissimo il fatto di parlare con uno di vent’anni che non abbia nessuna idea, categoria o concetto politico. Io li vedo come dei ragazzi molto ingenui, nel senso che non hanno una struttura, e molto insoddisfatti di quello che c’è in città, in senso lato. Questo allarme nel mondo dell’editoria sulla crisi della lettura è molto preoccupante: il fatto è che il libro è stato sostituito dal nulla, cioè dall’intrattenimento, senza altre forme di apprendimento. Io vedo che tra i ragazzi è diffusa la frustrazione…

Ma a te questi ragazzi che cosa chiedono?
Vorrebbero capire – anche se io mi sottraggo abbastanza a fare il modello – se c’è un altro stile di vita possibile. Sono molto interessati all’idea di uno stile di vita non convenzionale. Uno dei motivi per cui il mio libro sta andando così bene è che parla di una montagna felice: parla di persone che trovano una gioia nello stare in montagna. Invece molte volte la montagna è raccontata come un luogo depresso, dove le persone sono arrabbiate e tristi.

Abbiamo dialogato per ore, camminato e sudato, e poi bevuto insieme: è tempo ormai di lasciare lo scrittore al suo lavoro quotidiano e per me di tornare alla pianura. Sotto il sole del primo pomeriggio io e Paolo ci salutiamo, con la promessa di ritrovarci presto insieme, per continuare a tessere fili e legami tra le nostre città e la montagna. Mentre scendo per i prati verso la mia automobile, mi giro un istante verso la baita: Paolo è seduto sotto lo sporto del tetto, di fianco alla porta, con Lucky accucciato ai suoi piedi. Mi fa un cenno con la mano e io gli rispondo, ma è già lontano ormai, nuovamente rientrato nella sua solitudine alpina.
Andrea Membretti