Sviluppo del turismo e immigrazione straniera sono due fenomeni tra di loro in relazione da tempo in molte località delle Alpi italiane: in quelle più rinomate la presenza dei “migranti economici” è ormai consolidata, dal settore alberghiero alla ristorazione, dalle pulizie ai servizi alla persona, fino alla costruzione e manutenzione degli impianti di risalita. In anni più recenti, poi, i migranti hanno raggiunto anche le località montane meno note, ma connotate comunque da qualche forma di turismo, spesso caratterizzato per numeri contenuti di ospiti e dimensione slow dell’accoglienza: in questi luoghi gli stranieri trovano impiego in misura più ridotta nel comparto turistico, mentre perlopiù lavorano nel settore primario (agricoltura, taglio del bosco…), nell’edilizia, nel commercio.
A questo fenomeno, ormai consolidato, si aggiunge da qualche tempo una novità di rilievo, che viene di fatto ad interfacciarsi con la dimensione turistica alpina: una seconda categoria di stranieri, i rifugiati, comincia infatti a popolare alcune di queste località montane “minori”, in conseguenza di politiche nazionali di smistamento e ricollocazione dei richiedenti asilo su tutto il territorio italiano.
Era dunque facilmente prevedibile che, da più parti, si sarebbe individuata nel fenomeno dei rifugiati una minaccia per il turismo alpino, in un periodo già connotato da perdurante crisi economica e calo delle presenze nelle strutture ricettive: sebbene ancora limitate, già da un paio d’anni si segnalano proteste in diversi comuni montani (di solito organizzate da forze politiche xenofobe) contro la collocazione degli immigrati sul territorio, anche laddove si tratti di piccoli gruppi, alloggiati in strutture dismesse o sotto-utilizzate.
L’arrivo dei rifugiati pone dunque nuovi interrogativi rispetto al nesso tra immigrazione straniera e turismo alpino: questa nuova popolazione di immigrati, che appartiene più che mai alla categoria dei “montanari per forza” (essendo normativamente costretti a vivere temporaneamente in montagna), viene infatti ad insediarsi in zone in cui spesso si vanno investendo risorse e aspettative per il mantenimento (o la costruzione) di identità montane “per scelta”, funzionali (almeno in parte) alla preservazione o invenzione di determinate immagini turistiche, nell’ambito di economie locali decisamente dipendenti dal mondo urbano. La dialettica tra costrizione e scelta può assumere le forme della contrapposizione tra economia turistica (basata sull’offerta ai cittadini di beni culturali, come il paesaggio, e di servizi ad alto contenuto simbolico, come quelli ricettivi di tipo “sostenibile”) ed economia dell’accoglienza (legata invece alla sopravvivenza materiale in loco degli stranieri ospitati, con una caratterizzazione materiale e simbolica di segno ben diverso).
Ma quanti sono, dunque, e di chi stiamo parlando, quando usiamo il termine “rifugiati”? Al 1° gennaio del 2015 (dati Istat), gli immigrati presenti in Italia, con regolare permesso di soggiorno rilasciato per motivi umanitari, d’asilo o protezione, erano 100.138 maschi e 17.682 femmine (escludendo i soggetti con permessi di lungo periodo, carte di soggiorno e i minori non accompagnati). Come sappiamo, negli ultimi 2-3 anni una quota di questi soggetti è stata indirizzata verso i territori alpini o al margine delle Alpi: qui i migranti sono stati accolti innanzitutto nei progetti emergenziali (i Cas) e, in misura decisamente minore, nell’ambito delle reti di comuni e altri enti locali, aderenti allo Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Appare difficile però fare una fotografia realistica dell’attuale distribuzione territoriale di questi soggetti: infatti i dati Istat sugli stranieri regolarmente presenti sono relativi al comune di registrazione del permesso di soggiorno; successivamente lo straniero può essere ricollocato altrove e, per i successivi 1-2 anni, non viene di nuovo censito il suo comune di domicilio.

Considerando nel complesso i permessi di soggiorno per ragioni umanitarie rilasciati nelle regioni italiane il cui territorio è in qualche misura alpino, troviamo che (al 1/1/2015, dati Istat) nel Nord-Ovest erano accolte 24.053 persone e nel Nord-Est 17.892: in tutto 41.945 soggetti, in grandissima parte giovani e di sesso maschile, pari al 35,6% del totale dei rifugiati regolarmente presenti in Italia al medesimo momento. Questo dato non ci dice quanti di questi stranieri siano ospitati in strutture collocate in territorio montano, rispetto a quanti invece sono in pianura e nelle città maggiori: tuttavia delinea l’entità di una popolazione che spesso è collocata a poca distanza dall’arco alpino, e che verso di esso potrebbe essere in parte indirizzata in un prossimo futuro.
Scendendo al livello dei comuni alpini, mi limito a soffermarmi sul caso della rete di accoglienza dello Sprar, rispetto alla quale mi è stato possibile reperire dei dati aggiornati e realistici. Con riferimento alle provincie del Nord Italia, il cui territorio è almeno in parte alpino, le permanenze complessive degli immigrati in questo sistema sono state, nel 2015, pari a 2.820 (le permanenze non corrispondono al numero esatto di accolti, poiché comprendono beneficiari che sono transitati in più progetti Sprar di categorie e tipologie differenti – e pertanto censiti come beneficiari da tutti i progetti che li hanno presi in carico -, in seguito al trasferimento nel corso del 2015 di molti dei beneficiari accolti nei posti straordinari attivati nel 2014 in progetti “ordinari”, nonché a seguito di subentrate e gravi esigenze, emerse successivamente all’inserimento in accoglienza nel primo progetto Sprar. Le provincie interessate sono – da Est a Ovest -: Pordenone, Gorizia, Udine, Treviso, Belluno, Vicenza, Verona, Trento, Bolzano, Lecco, Brescia, Bergamo, Sondrio, Como, Varese, Aosta, Verbano-Cusio-Ossola, Biella, Cuneo, Novara, Vercelli, Torino e Imperia); nel 2016 i posti disponibili nel sistema sono pari invece a 1.723 (ogni posto, nel corso dell’anno, può essere occupato da più di una persona, in turn over).
Se da questo insieme andiamo ad estrarre solo i comuni prettamente montani (ovvero quelli classificati come alpini dalla Convenzione delle Alpi), il dato viene fortemente ridimensionato, così come si evidenzia che non tutte le regioni che hanno una parte di territorio alpina hanno attivato progetti Sprar in ambito montano. La tabella che segue riassume i dati in oggetto:

A fronte di 473 posti disponibili nelle strutture Sprar, i comuni alpini aderenti hanno dunque registrato nel 2015 quasi 800 presenze di richiedenti asilo: il numero non è molto elevato (si tratta del 35% circa del totale degli accolti nel solo sistema Sprar, relativamente alle provincie del Nord con porzioni di territorio alpine), specialmente se pensiamo alla grande disponibilità di spazi ed edifici non utilizzati in queste zone, in contesti spesso spopolati, caratterizzati da elevata rarefazione sociale e da abbandono di ampie porzioni di territorio. Tuttavia è un dato interessante: innanzitutto perché conferma come al fenomeno storico dell’immigrazione economica si stia aggiungendo quello dell’accoglienza dei rifugiati, in un’area geografica che, da un lato, è investita da fenomeni socio-demografici complessi (tra spopolamento e neopopolamento) e, dall’altro lato, si caratterizza per una dimensione turistica articolata e in mutamento (tra turismo di massa e nuove tendenze slow/sostenibili). In secondo luogo, è interessante perché sappiamo che il sistema Sprar è ancora del tutto minoritario (ma considerato come eccellenza anche dal governo nazionale) rispetto ai grandi centri di accoglienza che insistono in prossimità dell’area alpina, verso la quale, plausibilmente, si apriranno sbocchi sempre più consistenti, nell’ambito di politiche di ricollocamento dei migranti.

I comuni alpini coinvolti nei progetti Sprar non sono solitamente località turistiche di primo piano ma sono tutti interessati da qualche forma di turismo, di lunga data o anche di recente invenzione, a seguito della crisi di altre attività economiche presenti sul territorio. Si tratta spesso di luoghi che vanno caratterizzandosi per un’offerta rivolta a chi è in cerca di paesaggi culturali intatti, di modalità lente di fruizione del territorio, nell’ambito di identità culturali preservate.
Come si possono dunque conciliare turismo e accoglienza dei rifugiati in montagna, in contesti come questi? Esempi positivi non mancano, anche se poco noti a livello di opinione pubblica e di mass media: pensiamo a Pacefuturo, onlus che opera nella prima montagna biellese, dove da tempo i rifugiati sono accolti e, in buona misura, inseriti in progetti di recupero della rete sentieristica locale, con la finalità proprio di riattivare/inventare forme di turismo sostenibile in un comune in forte crisi dopo la chiusura dell’attività manifatturiera. Oppure alla cooperativa K-Pax, che ha aperto un eco-albergo in Valcamonica (altro territorio a cavallo tra industria e turismo), grazie anche all’inserimento lavorativo di diversi rifugiati. O ancora al Parco del Marguerais, nelle Marittime, che l’anno scorso ha coinvolto come volontari una decina di richiedenti asilo, grazie ai quali è stata migliorata la manutenzione delle strutture e dei sentieri montani, ma che sono stati impiegati anche nel fornire informazioni ai turisti.
Queste buone pratiche ci insegnano qualcosa di importante rispetto al nesso possibile tra accoglienza dei rifugiati e turismo: innanzitutto, l’apporto dei migranti può essere significativo proprio rispetto a quella cura del territorio e a quella preservazione del paesaggio culturale, che appaiono i requisiti fondamentali per uno sviluppo montano sostenibile e turisticamente attrattivo. In secondo luogo, l’inserimento lavorativo di rifugiati può rappresentare un fattore importante nel rilanciare attività ricettive e di servizio eco-turistiche, la cui sostenibilità si basa sulla logica dell’impresa sociale e non su quella del mercato puro. Ma i rifugiati rappresentano anche una risorsa potenziale per favorire la resilienza di comunità montane in crisi economica e identitaria: la sfida socio-culturale posta dagli stranieri (laddove la loro presenza sia gestita con accortezza rispetto al loro numero e alle modalità del loro inserimento) può infatti rappresentare un’occasione per il ripensamento di identità locali altrimenti a rischio di “museificazione folkloristica”. Ripensare queste identità territoriali in una direzione innovativa e inclusiva delle diversità, può anche avere un impatto turistico, come ci mostra il caso (agli antipodi delle Alpi) di Riace Calabro, che ha sviluppato un “turismo dell’accoglienza”, centrato proprio sull’inserimento intelligente dei migranti nel tessuto socio-economico locale. Non da ultimo, la permanenza durante tutto l’anno dei rifugiati nei comuni alpini ad offerta turistica può contrastare quella desertificazione sociale, tipica della “stagione morta”: un presidio del territorio che può valere anche dal punto di vista del controllo del dissesto idro-geologico, dell’offerta di servizi ai residenti storici (spesso anziani), dell’antropizzazione di luoghi altrimenti a lungo spopolati.
Se dunque le Alpi tornassero ad essere “terra d’asilo”, come storicamente sono state tante volte, non è insensato ipotizzare che, in prospettiva, alcuni dei “montanari per forza” potrebbero divenire “montanari per scelta”, contribuendo a quel ripopolamento delle terre alte, senza il quale non può esistere neppure alcun sistema turistico sostenibile.
Andrea Membretti