“Un parco per viverci” era lo slogan utilizzato negli anni settanta e ottanta del Novecento per promuovere la lungimirante politica dei parchi della Regione Piemonte. Furono gli anni di un grande salto culturale che accrebbe a tutti i livelli il rispetto per la natura e una coscienza ecologica, furono gli anni della rivista Airone che allora vendeva diverse centinaia di migliaia di copie, furono gli anni della nascita delle associazioni ambientaliste e delle grandi battaglie per la salvaguardia del territorio, e non a caso in quegli anni nacque anche la rivista Piemonte Parchi, dedicata alle aree protette del Piemonte. Nel 1975 vide la luce la prima legge quadro regionale in materia di parchi e riserve naturali e negli anni successivi vennero istituite le prime aree protette. Caratteristiche forti del sistema dei parchi piemontesi furono la pianificazione territoriale coordinata a livello regionale e la gestione affidata a enti che vedevano al loro interno la rappresentanza delle comunità locali. Un mix quindi vincente di indirizzo generale e potere locale. Caratteristiche che fecero della legge quadro regionale un modello di riferimento per una politica dei parchi a livello nazionale che si concretizzò con la legge quadro delle Aree Protette del 1992.
I parchi nacquero per salvaguardare, come scriveva nel 1983 il Presidente della Giunta Regionale del Piemonte Aldo Viglione, «un patrimonio naturale che si è salvato dagli effetti più sconvolgenti del processo di industrializzazione e dalla più sofisticata rivoluzione tecnologica». Ma man mano fu chiaro, a livello regionale come a livello nazionale, che le aree protette dovessero affiancare alla salvaguardia della biodiversità la promozione e lo sviluppo sostenibile del territorio, con particolare attenzione agli abitanti del territorio stesso. Un parco per viverci, appunto. Occorre ricordare come ancora negli anni ottanta il Parco nazionale del Gran Paradiso veniva visto dalle popolazioni locali come un’imposizione dall’alto da parte dello Stato, in particolare in Valsavarenche dove nella notte del 30 aprile del 1985 si raggiunse il momento forse più caldo della protesta con un attentato dinamitardo contro un traliccio dell’alta tensione.
Da allora i parchi hanno fatto tanta strada, cercando appunto di conciliare la missione primaria della conservazione con l’esigenza di diventare “motore” di uno sviluppo sostenibile del territorio. Se in alcuni casi ormai veramente isolati, come è accaduto con la recente costituzione del Parco del Monviso, si è tornati a un déjà vu che si pensava ormai dimenticato, con il parco visto come imposizione dall’alto e il tema della conservazione accolto come freno invece che motore dello sviluppo del territorio, nella maggior parte dei casi oggi c’è piena sinergia fra aree protette e popolazioni locali. I parchi hanno un riconoscimento a livello locale e sono gli stessi comuni che chiedono all’area protetta un ruolo di guida e di traino, ad esempio nella partecipazioni a bandi europei o ad altre iniziative che coinvolgano il territorio. E non potrebbe essere altrimenti, considerato che, di fatto, oggi i consigli direttivi dei parchi sono in gran parte composti da rappresentanti degli enti locali, forse il primo e unico esempio di vero federalismo, con un deficit semmai di rappresentanza da parte degli enti centrali e del mondo scientifico.
Purtroppo però, come ben sintetizzato in un recente convegno sulle aree protette da Valter Giuliano, presidente del Parco del Po e della Collina Torinese, «la riflessione politica sui parchi si è fermata e oggi c’è molta meno attenzione e sensibilità alla questione. Non c’è più una politica dei parchi, né a livello regionale, né a livello nazionale». Occorre quindi, come puntualizzato da Roberto Saini, docente di pianificazione ambientale, «tornare a fare una politica del territorio e dei parchi. Bisogna fare sistema. I parchi non devono essere isole ma devono diventare il territorio, occorre tornare a una visione di unione tra ambiente umano e ambiente naturale».
E tutto questo va comunicato all’opinione pubblica con forza, altrimenti c’è il rischio che i parchi entrino in clandestinità, come purtroppo in parte sta già accadendo, o che le loro azioni passino inosservate. E sarebbe veramente un peccato. Viviamo infatti anni cruciali per il futuro del nostro Pianeta e delle nostre montagne, anni in cui diventa sempre più evidente come solo un turismo e uno sviluppo rispettosi del territorio e della biodiversità possono avere un futuro. E chi meglio dei parchi, con la loro sintesi tra ambiente umano e ambiente naturale, può dare una mano a tracciare una via possibile? “Parchi laboratorio per il futuro”, come intitolava una mostra sulle aree protette piemontesi.
Stefano Camanni
Info: www.piemonteparchi.it