Mamma e papà: una scelta coraggiosa – controcorrente per qualcuno – tra rischi imprenditoriali e difficoltà logistiche che spesso si scontra con le aspettative della famiglia di origine. Qualcuno ha potuto contare sull’aiuto e il sostegno – più o meno fisico – dei propri genitori, mentre altri hanno dovuto scontare momenti di accesi rimproveri oppure giorni di eloquenti silenzi.
«Dopo essermi diplomato come perito meccanico mi sono iscritto all’Università, ma la mia vita lavorativa ha iniziato a virare verso quote più alte – racconta Roby Boulard, guida alpina della Val Pellice che da quasi trent’anni gestisce il rifugio Willy Jerwis nella Conca del Prà –. La decisione di prendere in gestione il Jervis non è stata accolta con entusiasmo in casa, perché sono figlio di operai e siamo sempre stati legati al posto fisso e allo stipendio mensile. Lavoravo in una piccola azienda in valle come disegnatore meccanico e quando mi sono licenziato i miei non mi hanno rivolto la parola per almeno quattro mesi. Col tempo la gestione del rifugio è diventata un lavoro gestibile anche dal punto di vista economico, così la situazione si è ribaltata. Io ho trovato la mia realizzazione professionale qui, 1700 metri sopra Bobbio Pellice, mentre i miei ex colleghi in questi ultimi anni hanno cambiato almeno venti lavori e oggi non hanno alcuna sicurezza sull’impiego di domani».
Anche Danila Bertalot diversi anni fa ha deciso di mettersi in proprio: restituito il timbro da geometra, insieme alle due sorelle ha aperto un’agenzia di viaggi, poi un negozio di alimentari e infine una casa vacanze in Frazione Castel del Bosco di Roure, in Val Chisone, dove sono nate e cresciute. «Una sfida che ci ha viste al lavoro, fianco a fianco – ricorda Danila, seduta in una delle belle stanze della casa vacanze La Peiro Douço –. I nostri genitori ci hanno appoggiate da subito, vedendo in questa nuova avventura un’opportunità per noi e il nostro futuro: da un lato un’alternativa al lavoro in fabbrica, dove hanno trascorso otto ore al giorno della loro vita, e a quello da dipendente, dall’altro la possibilità di fare qualcosa per la valle in cui siamo nate e cresciute incentivando il turismo. Ancora oggi, la mamma si rende disponibile e partecipe: ci aiuta con la reception, risponde al telefono, prende le prenotazioni e quando siamo assenti si fa carico di accogliere gli ospiti. Sono contenta di vederla coinvolta e riconosco in lei le piccole e grandi soddisfazioni che questo lavoro dà: stare con le persone, scambiare qualche parola con loro e accompagnare i turisti alla scoperta del nostro territorio».
Arrivano i figli: cosa accade quando si decide di ampliare la famiglia? Il rifugio è una dimensione di vita adatta ai figli? «Io dico di sì – afferma Massimo Manavella, gestore, insieme alla moglie Sylvie Bertin e al figlio Leonardo, del Rifugio Selleries, una delle strutture più conosciute della Val Chisone, in provincia di Torino –. Un progetto di questo tipo è complicato, ma possibile. Fatichiamo a incastrare i nostri momenti di tempo libero e spesso è difficile trovare il tempo per fare delle cose insieme, come famiglia, ma quello del rifugista è un lavoro normale… D’altronde ognuno si amministra la propria normalità! Lo dimostriamo noi insieme a tante altre esperienze di vita famigliare in rifugio, come quella di Hervé Tranchero che insieme alla sua famiglia gestisce dal 1976 il rifugio Quintino Sella, in Valle Po». Quando da due persone che condividono un progetto di vita, l’amore per la natura e per la montagna, si passa a tre, quattro, cinque, le cose cambiano, perché se è una gioia immensa vedere crescere i propri figli in mezzo alla natura incontaminata, è anche importante farsi qualche domanda sulla loro necessità di conoscere, confrontarsi, giocare e vivere con i coetanei. «Prendiamo ad esempio la stagione estiva – spiega Sylvie –. Con le vacanze scolastiche ci trasferiamo tutti insieme in quota: questo significa offrire a Leonardo la possibilità di vivere nella natura, in un ambiente privo di vincoli e ricco di libertà, ma anche obbligarlo ad allontanarsi dal suo habitat, dai suoi amici».
Qualche vallata più in là, in provincia di Cuneo, c’è chi vive quotidianamente la stessa questione e ha trovato un compromesso tra la vita in alta e bassa quota. «La nascita di Margherita nel 2010 e quella di Martino nel 2012 hanno rimescolato le carte in tavola – ammette Marco Andreis che insieme alla moglie Valeria Ariaudo gestisce dal 2000 la locanda occitana Lou Pitavin, a Marmora, in alta Val Maira –. Quando i bambini sono piccoli la vita famigliare in montagna è semplice, poi, quando li vedi crescere, inizi a farti qualche domanda sul loro futuro. D’estate, al risveglio, Margherita viene nel lettone e ci domanda se nella locanda arriveranno altri bambini con cui giocare, se parleranno la nostra lingua e se si fermeranno per qualche giorno. Mia moglie ed io abbiamo fatto la nostra scelta a vent’anni, di fronte a prospettive diverse; potevamo scegliere di andare a vivere a Londra, in Australia oppure in Nuova Zelanda: abbiamo scelto l’alta Valle Maira, ma spesso ci domandiamo quanto sia giusto farli crescere tra Marmora e Canosio dove non ci sono altri bambini. Così, oggi proponiamo loro due esperienze di vita, quella della montagna e quella della città. La locanda resta aperta da Pasqua fino ai Santi e nelle vacanze tra Natale e Capodanno per circa otto mesi all’anno in cui la nostra famiglia si trasferisce in alta valle; i periodi restanti li trascorriamo a Dronero, un paese del fondovalle, che offre ai nostri bambini tutte le possibilità e le esperienze che meritano di vivere, quelle di nuotare in piscina, giocare a calcio oppure a pallavolo, suonare uno strumento e conoscere altri bambini».
La vita in rifugio sembra consentire numerose opportunità di socializzazione. «Accogliamo tanti ospiti ed entriamo in contatto con persone diverse: è difficile pensare al rifugio o a una struttura ricettiva come un luogo isolato! – sottolineano Natalia e Ferruccio Colavita, gestori del Rifugio La Fontana del Thures e genitori del neonato Miro –. Ci piace l’idea di crescere un figlio qui, almeno nei suoi primi anni di vita. Sappiamo che tra qualche anno, forse con l’inizio della scuola, ci toccherà prendere alcune decisioni per tutelare la necessità di socializzazione del piccolo e magari spostarci altrove. Siamo cresciuti in città e riconosciamo gli stimoli e le offerte culturali che un luogo vivo può offrire rispetto a una piccola borgata di montagna come Thures, però se la montagna deve rinascere questa è la via!».
Nelle ultime settimane il tema della rinascita demografica delle terre alte è stato affrontato da numerosi media nazionali e internazionali, tra Cnn, Bbc, Telegrafh, e radio, tv e giornali cileni, turchi, russi, brasiliani, portoghesi, statunitensi. Un caso che ha visto protagonisti Silvia Rovere e il marito Jose Berdugo insieme alle due figlie e al terzogenito Pablo, neonato di Ostana, venuto alla luce dopo ventotto anni che la cicogna non arrivava ai piedi del Monviso. In poche ore il nome del piccolo borgo della Valle Po e quello del nuovo arrivato sono diventati simbolo del «modello per la rinascita demografica della montagna». «Quando abbiamo ricevuto la telefonata che ci offriva la gestione del rifugio La Galaberna avevamo una bimba di un anno e mezzo, Clara che oggi ha sei anni, e una nella pancia, Alice che di anni ne ha tre – ricorda Silvia che gestisce insieme al marito e a un’altra coppia di soci il rifugio di Ostana –. Jose ed io abbiamo sempre pensato che Torino non potesse essere il nostro posto: una città non poteva essere la risposta a quello che sognavamo per la nostra famiglia. Siamo cresciuti in piccoli paesi e siamo abituati a dimensioni e comunità più ristrette. Inoltre, abbiamo una certa predisposizione al cambiamento, basti pensate che quando ci hanno offerto la gestione in Valle Po stavamo preparando le valigie per l’isola di Réunion, dove avevamo deciso di trascorrere la maternità. Abbiamo scelto queste montagne e ne siamo felici, tant’è che abbiamo deciso di allargare la famiglia. Cosa ci ha convinti a salire qui? Non si è trattato solamente di spostarsi per aprire un locale. Ostana sembrava un luogo in cui ci fosse la possibilità di costruire e di dire la nostra. E così è stato. La nostra scelta si è rivelata giusta, vincente, soprattutto dal punto di vista umano: oggi viviamo in una comunità che è cresciuta condividendo degli obiettivi importanti».
Daria Rabbia