Diego Leoni, La guerra verticale, Einaudi, Torino 2015. 552 pagine, 36 euro.


Moltissimo, forse troppo, è stato scritto sul fronte alpino della Grande Guerra, ma mancava un’opera che riassumesse e interpretasse la mole di studi e testimonianze con la precisione e la competenza di uno storico del Novecento. Dopo molti anni di lavoro, ci pensa lo specialista roveretano Diego Leoni, già autore de “La Grande Guerra. Esperienza memoria immagini” (Il Mulino, 1986, con C. Zadra) e “La montagna violata” (Materiali di lavoro, 1989). Nel quadro complessivo della Prima guerra mondiale la “Guerra bianca” è passata agli occhi degli storici come una specie di conflitto accessorio, variante bizzarra e indecifrabile della Grande Guerra; ancora oggi, nonostante la monumentale pubblicistica a riguardo, si stenta a capire che i soldati italiani e austriaci combatterono per tre anni una guerra assurda e straordinaria, arrampicati su un fronte funambolico dai caratteri alpinistici, in luoghi più simili all’allucinazione di un folle che al calcolo di uno stratega. La strana guerra consumatasi tra le cime dell’Adamello, le Dolomiti e gli altipiani, con una violenta presa di possesso dell’ambiente montano, delle sue genti, della vegetazione, degli animali e di ogni risorsa disponibile, fu un evento unico, con regole e codici assolutamente imprevisti e imprevedibili. Situazioni e ambienti apparentemente ripetitivi – l’isolamento, il freddo, i dislivelli bestiali, le frane, le valanghe, la vita da trogloditi, la coabitazione tra soli uomini – produssero risposte sorprendenti, insolite collaborazioni umane, geniali rimedi di sopravvivenza e adattamento. Non era mai successo che un piccolo popolo dovesse abitare le altissime quote, in estate e inverno, con il bello e il cattivo tempo. Come argomenta Leoni nella sua lunga e convincente lettura del conflitto, gli uomini dei due eserciti «si impadronirono dello spazio alpino, lo attrezzarono, lo scomposero, lo ricomposero, lo artificializzarono portando in quota, che sempre più si elevava, un numero iperbolico di animali, di armi, di mezzi, di tecnologie, di materiali».
La raffinata analisi di Leoni inizia con il “campo di gioco dell’Europa” nel quadro del nascente fervore turistico e della cruda propaganda nazionalistica del primo Novecento, aprendosi poi alle inedite teorie della guerra di montagna con la preliminare guerra dei forti, le successive battaglie in parete, la collaborazione di uomini e quadrupedi, la guerra aerea sulle creste e la guerra sotterranea in galleria, le imprese alpinistiche in guerra e nel dopoguerra, la collaborazione tra pastori, cacciatori e ufficiali, il mito e l’antimito della guerra alpina, la costruzione identitaria dei soldati di montagna. Tutto il libro tiene d’occhio l’invenzione e l’evoluzione delle strategie belliche in riferimento all’ambiente dell’alta montagna, alla trasformazione della natura, alle fulminee e radicali alterazioni operate degli eserciti e dalle loro macchine da guerra. Dall’elitaria frequentazione alpina di inizio secolo si passa in due o tre anni alla distruzione di massa e alla frequentazione di popolo, che durante il fascismo sfocerà nel mito dell’Alpe e dell’Alpino. Come osserva l’autore in una delle pagine più significative del volume, «quella guerra aveva sancito l’alleanza tra Tecnica e Natura; aveva fatto chiaramente intendere che nessun luogo dello spazio alpino era ormai irraggiungibile e immodificabile; ne aveva riformato le gerarchie di accesso; aveva messo il soldato-operaio nelle condizioni di destrutturarlo e ricostruirlo con la meccanica e la chimica; aveva consentito all’ufficiale-ingegnere-architetto la sperimentazione di nuovi materiali, l’innovazione delle tecniche e delle metodologie costruttive».
Enrico Camanni